lunedì 29 dicembre 2008

Giawhar as.Siqilli, grande generale, shiita e siciliano



Giawhar as-Siqilli, grande generale, shiita e siciliano.
Egypt Air ha annunciato di voler stabilire un collegamento aereo tra Il Cairo e Catania, in seguito anche ai recenti accordi culturali tra le due nazioni ed alla inaugurazione nella capitale egiziana di una strada ed un parco intitolati alla Sicilia. I legami tra l'Egitto e la Sicilia vanno indietro di millenni, sin da quando l'impero Siracusano di Dionigi si estendeva su di un'ampia parte del Mediterraneo sino all'alto Adriatico. Dalla gigantesca nave costruita da Archimede e da Ierone donata a Tolomeo d'Egitto, una delle meraviglie tecnologiche della storia della civiltá umana, alla legenda del cuoco catanese di Cleopatra, sino alla fondazione del Cairo da parte dell'ammiraglio siciliano Giawhar El Siqilli . Un grazie da parte di tutti i duosiciliani a tutti coloro i quali sono stati capaci di ravvivare, in ambito sia politico che culturale, questi legami storici tra due delle nazioni e delle civiltá piú antiche del Mediterraneo dopo un lungo periodo di forzato isolamento reciproco.Vogliamo riprendere il tema del legame tra la Sicilia e l'Egitto ricordando le gesta del valoroso Giawhar El Siqilli. Vi riproponiamo un articolo comparso su “L’Isola”, una pubblicazione dell’Associazione L’Altra Sicilia, per ricordarvi come la forza dei duosiciliani non si misura in voti, ma nella capacitá di fornire quell'avanguardia morale di riscoperta e di risveglio delle coscienze dei Siciliani al di lá ed al di qua del faro sulla cui base si costruirá la nostra libertá.




Giawhar El-Siqilli (Sicilia, 911 - Il Cairo, 28 gennaio 992) fu un generale siciliano del Califfato Fatimide. Egli conquistò tutto il nord Africa, l'Egitto e la Siria. Fondò la stessa città di al-Qahirah (Il Cairo) e la grande moschea di al-Azhar, che è anche una delle più antiche università del mondo. Il suo nome completo era Abu al-Hasan Giawhar ibn Abdullah. Non conosciamo niente dei suoi antenati a parte il nome del padre, Abdullah. La ragione di ciò è che Giawhar faceva parte di un gruppo di Mawâli siciliani, ovvero cristiani bizantini convertiti all’Islam per i quali non si usava conservare tracce delle loro origini pre-islamiche. Nel 953, Giawhar viene nominato segretario dell’Emiro al-Mu'izz. Giawhar alla testa dell'esercito fatimide conquistò M'Sila. Tentò poi di penetrare nel Maghreb occidentale. Nel 959 venne nominato visir e comandante in capo dell'esercito. Nello stesso anno intraprese con successo la conquista di numerose province del Maghreb. Stabilì qui la sua residenza da cui governò negli anni successivi. Nel mese di febbraio del 969 Giawhar, che è ormai considerato insostituibile dall'emiro al-Mu'izz, venne incaricato di conquistare l'Egitto. In poco tempo si impossessò della città di Alessandria senza grandi problemi e si diresse verso la città di Al-Fustat che immediatamente si arrese. Immediatamente dopo la vittoria divenne governatore dell'Egitto e si distinse evitando che i propri soldati si dedicassero al saccheggio dando loro grandi ricompense ed onori. Il suo governo fu tollerante, benevolo e positivo. Il giorno stesso della conquista, 6 giugno 969, Giawhar tracciò il progetto di una nuova città e procedette alla fondazione, su un terreno di 136 ha, di al-Qâhirah (l’attuale città del Cairo) e alla costruzione del suo castello (Qasr). Nel 970 iniziò l'edificazione della moschea al-Azhar, centro della propaganda sciita in Egitto. La moschea fu inaugurata due anni dopo. I contingenti dell'esercito furono disposti per accantonamenti, che si trasformarono rapidamente in quartieri. Giawhar fece anche costruire un palazzo per accogliere il califfo. Il 22 giugno del 972 la moschea fu aperta al culto e il 10 giugno 973 tutto era pronto per accogliere il califfo Al-Muizz li-Dîn Allah, che vi trasferì la sua capitale. Nell'anno 970 inviò i suoi uomini alla conquista della Siria, compito che viene portato a termine con successo. Nel 972 i Siriani contrattaccarono, ma Giawhar riuscì a batterli. In tal modo la Siria fu riconquistata in via definitiva. Morì il 28 gennaio 992 a più di 80 anni d’età. Sul lato nord dell'università di al-Azhar può essere visitata quella che viene considerata la sua tomba (anche se la questione è controversa).

venerdì 26 dicembre 2008

Dov'è finito il nostro sangue?



Dov’è finito il nostro sangue?

“Il popolo non ha lavoro, pane, speranza. Nella città di Napoli si assiste giornalmente ad uno spettacolo desolante. Vi giungono carovane di contadini delle Calabrie, della Basilicata, del Cilento che vengono ad imbarcarsi per emigrare. Sono pallidi, disfatti, con l’aspetto della miseria più crudele. Già moltissimi operai, cacciati dagli arsenali e dai cantieri, sono partiti per l’Egitto ove sperano di procurarsi un lavoro e del pane lavorando per la Compagnia dell’istmo di Suez. Dalla Sicilia l’emigrazione per Tunisi, Tripoli e Algeri è all’ordine del giorno. Un gran numero degli abitanti delle province continentali cerca, nel porto di Genova, l’occasione per imbarcarsi verso l’America meridionale. Alcuni, crudelmente delusi, giocoforza si arruolano. Gli abitanti dell’isola di Ustica, in Sicilia, del resto già piuttosto spopolata, stanno per emigrare quasi tutti a Buenos Ayres. Com’è possibile, dunque, che gli abitanti delle Due Sicilie, i meno inclini a lasciare la propria terra, siano ora presi da questo furore dell’emigrazione? Le imposte esose, la mancanza di commerci e di lavoro, il dispotismo del governo, la legge Pica, la legge Crispi ne sono senz’altro le cause”. (P.Calà Ulloa, Lettres d’un Ministre emigrè, Lettera XLIII del novembre 1866, tratta da “I lager dei savoia", di Fulvio Izzo, Ed. Controcorrente).
Nel mio recentissimo Pellegrinaggio alla Mecca, grazie a Dio felicemente portato a termine, ho avuto la ventura di incontrare il giovane ritratto con me nella foto, inglese di origine irakena, che era nel mio stesso gruppo di pellegrini partiti da Londra. Egli, sentendomi dire che ero “siciliano”, mi ha confidato d’essere anch’egli di origine siciliana da parte di madre. Infatti mi ha raccontato di un suo bis-bis-bis nonno materno che, più o meno ai tempi descritti dalla lettera di Calà Ulloa, aveva lasciato la Sicilia verso i paesi arabi. La sua discendenza era poi passata in Turchia e di qui, seguendo i destini delle varie generazioni, in Iraq, per poi finire, attraverso le sofferenze di questo popolo, tanto simile a quelle dei nostri avi duosiciliani, in Inghilterra. Grande è stato l’affetto che si è creato fra noi, l'affetto dovuto al fatto d'avere lo stesso sangue (duosiciliano) e la stessa fede (l'Islam). Sicuramente Dio avrà voluto darci un segno facendoci compiere insieme il pellegrinaggio alla sua Santa Casa.

martedì 28 ottobre 2008

I "picciotti" del Profeta


I "PICCIOTTI" DEL PROFETA

Il passato islamico delle Due Sicilie è un qualcosa che ogni duosiciliano musulmano che abbia un minimo di capacità d’introspezione sente fortissimamente in sé.
Leonardo Sciascia in “Occhio di capra” così s’espresse: “A Racalmuto (Rahal-maut - villaggio morto - per gli arabi: e pare gli abbiano dato questo nome perché lo trovarono desolato da una pestilenza) sono nato sessantaquattro anni addietro; e mai me ne sono distaccato, anche se per periodi più o meno lunghi (lunghi non più di tre mesi) ne sono stato lontano. E così profondamente mi pare di conoscerlo, nelle cose e nelle persone, nel suo passato, nel suo modo di essere, nelle sue violenze e nelle sue rassegnazioni, nei suoi silenzi, da poter dire quello che Borges dice di Buenos Aires: “Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”. Mi pare cioè di sapere del paese molto di più di quel che la mia memoria ha registrato e di quel che dalla memoria altrui mi è stato trasmesso: un che di trasognato, di visionario, di cui non soltanto affiora - in sprazzi, in frammenti - quella che nel luogo fu vita vissuta per quel breve ramo genealogico della mia famiglia che mi è dato conoscere (e tutto finisce, nel risalire il tempo, a un Leonardo Sciascia, nonno di mio nonno, che nei primi dell’Ottocento venne a Racalmuto dal vicino paese di Bompensiere per esercitarvi il mestiere di conciatore di pelli), ma anche tutta la storia del paese dagli arabi in poi. Ed ecco un fatto di per sé borgesiano, del Borges di natura e quotidiano: non riesco ad immaginare, a vedere, a sentire la vita di questo paese prima che gli arabi vi arrivassero e lo nominassero. Ed è piuttosto facile scoprirne la ragione: la mia residenza qui, quella residenza che di molto precede la nascita, è cominciata con gli arabi, dagli arabi. Del resto, c’è il mio nome: che è tra quelli che Michele Amari registra come arabi, e finiscono con l’esser tanti da contraddire la sua tesi di fondo che la Sicilia sia stata araba ma non, per dirla approssimativamente, arabizzata (e il nome, fino alla metà del secolo scorso, nelle anagrafi parrocchiali, non gratuitamente, ma per esigenza fonetica, veniva così trascritto: Xaxa)”.
Bellissimo questo scritto di Sciascia: “Risiedevo qui e poi vi sono nato” tuttavia “non riesco ad immaginare, a vedere, a sentire la vita di questo paese prima che gli arabi vi arrivassero e lo nominassero” perché “la mia residenza qui, quella residenza che di molto precede la nascita, è cominciata con gli arabi, dagli arabi. Del resto, c’è il mio nome tra quelli che Michele Amari registra come arabi”.
Chiarissimo. C’è una sorta di filo sottile, ma continuo della memoria che ci lega pressocchè inconsapevolmente, ma non del tutto, ai nostri avi, sia a quelli più vicini, di cui c’è stato trasmesso direttamente qualcosa, sia quelli più lontani, di cui nulla sappiamo, ma che comunque sono legati a noi.
Non ne ho le prove, ma sono sicuro di discendere da uno di quei musulmani di Sicilia deportato a Lucera da Federico II e che, pur sconfitto, umiliato, venduto schiavo, cristianizzato, è riuscito a trasmettere il seme dell’Islam ai suoi discendenti fino a che, quando la possibilità c’è stata per quel seme di germogliare, esso è germogliato ed io sono tornato all’Islam.
Per questo, di mio, prima ancora di conoscere lo scritto di Sciascia, io che mai avevo scritto poesie, mi uscì di getto quella che è stata finora la mia unica poesia (anche se devo riconoscere che essa mi venne fuori dopo aver letto sul web un verso, uno solo, che ho fatto subito mio perché l’ho riconosciuto come tale; era di un certo Enzo, che forse, come me, sentiva questo filo continuo; ho anche provato a contattarlo, ma senza successo):

“Vivo da 14 secoli,
dall’Arabia alla Persia, da Cordoba a Mazara,
di generazione in generazione discepolo del Profeta,
esiliato, profugo, sempre straniero nella mia terra.

Strappato alla mia Sicilia,
dov’è ancor la mia casa, abitata dai rovi,
divenni straniero in Andalus, nella Granata che io edificai,
e ogni giorno muoio di nostalgia per la mia patria.

Oggi son tornato, oh madre,
dove mi guardavi da fanciullo, settecento anni fa,
giocare a inseguir lucertole, sotto la torre sveva,
mentre dabbasso il grano ondeggiava nel vento caldo del Tavoliere”.


Credo dunque di potermi dire, in piena coscienza e nel mio pieno diritto, in quanto duosiciliano e musulmano, “picciotto del Profeta”!
E’ una gran bella sensazione! Dire “picciotto” è dire d’essere figlio di questa terra meravigliosa, baciata da Dio, accogliente e ammaliante, che ha mutato in figli molti di coloro che vi giunsero come nemici, calando dal Nord o venendo dal mare per attaccarla e sottometterla; che ha integrato coloro che vi sbarcarono per sfuggire ad antiche persecuzioni o a moderne povertà, dandogli terre da coltivare, paesi da abitare, donne (o uomini) da sposare e Re savi da amare e ubbidire.
Qui ci sono paesi dove si parla albanese, greco o idiomi slavi. Altri dove si parla il francese, mentre un po’ tutti noi parliamo un po’ spagnolo. Altri paesi hanno nomi arabi e in essi oggi si torna a parlare arabo, grazie a quell’immigrazione che io definisco “riparatrice”, perché ha permesso il ritorno “ufficiale” degli unici figli cacciati via in nome dell’unità religiosa del paese, concetto che tante sofferenze ha apportato e che spero tramontato per sempre.
La mia storia di “picciotto del Profeta” ebbe inizio il 18 giugno dell'827 sulla costa di Mazara, in Sicilia, e non è mai finita. Ancor oggi, infatti, la più immediata immagine della Sicilia, la sua identità più profonda è quella dell'Islam. La civiltà che i miei padri instaurarono in Sicilia nel nome della religione di Muhammad (pace su di lui e sulla sua famiglia) è impronta ancora viva che, con tutto il suo bagaglio di cultura, di stile, di mentalità, di vita quotidiana perfino, segna il nostro destino. La mia residenza genealogica è dunque in Sicilia, tanto in quella di là dal Faro che in quella al di qua, che pur meno intrisa della prima, ha assaporato e assorbito qua e là questa sicilianità o sicilitudine. Il profilo di questa identità “islamica” è lo stesso in ambedue le Sicilie: è quello dei mercati, dei giardini, delle tavole imbandite, della "frescura”, dell'acqua, della gastronomia, della seduzione, della sterminata produzione poetica, del mistero, della toponomastica, dell'arte, della lingua, delle strade, dei castelli, dei silenzi, della solitudine, dell'assenza dell'odio politico, dei riti popolari, perfino di quelli più fortemente cristiani come la Settima Santa. Come non vedere nelle processioni del Venerdì Santo un eco del lutto di Ashura? E nel pugnale infisso nel petto della nero vestita Madonna Addolorata, il dolore di Fatima Zahra per la morte del suo amato figlio, l’Imam Hosseyn? Per la rude semplicità della città cristiana di un tempo, la Sicilia degli emiri e delle moschee fu quasi una vetrina da ammirare e in cui specchiarsi. Ed ancora oggi, il rude padano non riesce a spiegarsi la perdurante vitalità di un popolo che, da suoi bisnonni percosso e rapinato a morte, riesce ancora a sorridere alla vita e farsi sberleffi delle altrui preoccupazioni “fiscali”. E’ la vitalità islamica, quella stessa che fa sorridere ancora i palestinesi nonostante 60 anni di sofferenze, che fa gioire e sparare in aria gli irakeni ad ogni piccolo successo contro l’invasore, che fa brulicare di vita le città mediorientali anche nelle ore della notte. E’ la nostra inesauribile eredità!

Note

Recentemente è stato realizzato un documentario sulla presenza araba in Sicilia, attraverso i secoli, fino ai giorni nostri. Il suo titolo è appunto “I picciotti del Profeta”. Lo ha girato l’Istituto Luce a Scicli, Mazara, Vittoria e Santa Croce Camerina. La festa delle Milizie, la presenza delle “tannure”, i forni tipici della tradizione araba, e poi l’abbigliamento, i costumi, gli attrezzi di lavoro, i cui nomi in siciliano hanno la stessa pronuncia che in arabo. Autore del documentario è Pietrangelo Buttafuoco, insieme a Maura Cosenza. “Scopo del documentario è quello di offrire visivamente le emozioni, le sensazioni, i profumi, e soprattutto quanto la gente di Sicilia sente dell’Islam”, ha spiegato Maura Cosenza. Il lungometraggio dura cinquanta minuti e parte da ciò che si può vedere nei siti archeologici, nei castelli, nell’unico caravanserraglio che c’è a Sambuca di Sicilia, nei bagni arabi di Cefalà Diana; da lì si snoda un percorso tortuoso, a 360 gradi, alla ricerca delle tradizioni, nella vita di tutti i giorni, nella toponomastica, negli utensili utilizzati in agricoltura, nella cucina. Quindi c’è il tema dell’immigrazione dei tunisini, dei maghrebini, tutte popolazioni islamiche, musulmane, la cui presenza è stata censita solo dal 1990, quando già da una ventina d’anni questi immigrati vivevano a Mazara, a Santa Croce, a Vittoria, a Scicli… “Questi immigrati sentono di essere siciliani, si sentono poco italiani”, spiega Maura Cosenza. Il documentario è distribuito in Dvd dall’Istituto Luce.

domenica 28 settembre 2008

I luoghi dell'Islam - Capo Colonna a Crotone



Sibari

Sibari non c’è, ma tutti vi fanno riferimento, come se fosse la città capoluogo. E, se Dio vuole, fra non molto lo sarà davvero. La mitica città del lusso e del dolce vivere, conquistata e distrutta dai rudi crotonesi, è destinata a rivivere, a far di nuovo coppia con Taranto ai due vertici del Golfo Jonico.
Di essa ci sono i capisaldi: la stazione ferroviaria, il piccolo centro abitato, l’Hotel Mediterraneo, la Marina, il porto mercantile, l’area archeologica, il casello autostradale, l’infrastruttura stradale ecc. Spetta ora a dei bravi architetti ed amministratori organizzarne il tessuto urbano del futuro.

La posizione di S. Demetrio Corone è troppo bella. “Lo sguardo, superando foreste e paesi e fiumi e lunghe strisce di terra coltivata, abbraccia le cime nevose del Dolcedorme e il Mar Jonio. Ma non è tanto la varietà della scena, né la memoria dell’antica Sibari, che accende l’immaginazione, quanto la sua vasta immensità. Pensate, una grandiosa valle in cui l’atmosfera è di così perfetta limpidezza che vi sono istanti in cui sembra di scorgere ogni pietra e ogni cespuglio sulle montagne, a trenta miglia di distanza. E i colori delle nuvole, al tramonto, sono tali da ispirare il pennello di Turner o di Claude Lorraine…” (Norman Douglas, Vecchia Calabria, Giunti, 1992)
San Demetrio è la capitale degli Albanesi. Quale sorpresa dunque, quando passeggiando per il suo corso, di sera, ci sentiamo all’improvviso salutare con un perfetto e gioioso “Assalamu ‘aleykum”. Era un fratello siriano che ci raccontò d’essere sposato con una albanese di San Demetrio e che ambedue risiedevano in Padania. Le vie di Allah sono infinite: gli albanesi fuggiti dall’Albania invasa dai turchi e riparati nelle Due Sicilie, oggi si ritrovano emigrati in Padania e mogli di musulmani.

A Villapiana Lido l’ambulante chiede alle nostre donne perché indossano l’hejab. Non s’era accorto d’avere la risposta sulla sua bancarella: vendeva quadri di Madonne!!

Crotone

Quando da Milano, Bologna o Rimini noi foggiani prendiamo il treno per tornare nella nostra amata / odiata Foggia, spesso prendiamo il treno per Crotone. Molti di noi forse non sanno nemmeno dove sia Crotone, fatto gravissimo per quell’ipotetica quanto auspicata coscienza nazionale duosiciliana. Molti altri sapranno che è in Calabria, ma non ci sono mai stati. Fino a poco tempo fa era il caso mio. Spesso ho vagheggiato di Crotone, città mitica (i forti crotoniati che radevano al suolo la molle Sibari!!), ma mai avevo avuto modo di visitarla. Quest’anno, un matrimonio, quello tra il fratello Mahdi, calabrese doc e la sorella Muna, figlia dell’Iran, c’ha dato modo di vedere la Calabria e la stessa Crotone, in particolare il suo famoso Capo Colonna. Ci arrivammo all’ora di pranzo, quando il sole d’agosto era allo zenith e, come suol dirsi, spaccava le pietre, per non dire altro.
Il baretto della zona archeologica, di fronte alla chiesetta e alla torre d’avvistamento, e soprattutto la sua ombra ci ammaliò e ci fece sedere volentieri a bere una bibita fresca; ma io dentro di me scalpitavo: la colonna, la colonna mi chiamava…
La deserta campagna di Capo Colonna, uno dei lembi più deserti della nostra patria duosiciliana, sia in senso vegetativo che abitativo, un pezzo d’Africa in Europa, è inondata di luce. La luce, una delle caratteristiche fondamentali del deserto, qui, nell’ora dei fantasmi meridiani, nel bestiale sole d’agosto, provoca un’aridità allucinante, carica d’abbagli. “L’irruenza di una luce che sottrae ogni cosa a se stessa” diceva Ungaretti in “Giornata di fantasmi”.
E i fantasmi ci sono davvero. Mentre gli altri continuano a godersi l’ombra della veranda del bar, la mia inquietitudine mi porta ad entrare nella chiesetta:
Nella penombra di quell’atmosfera silente e segreta, scorgo un dipinto che mi riporta indietro nei secoli. Ecco il tempio di Hera Lacinia ancora in piedi, prima che un vescovo lo facesse demolire scientemente, ed in quel fabbricato a volta a botte che affianca oggi la chiesetta, eccovi accampati dei “Saraceni”, arabi o turchi non si sa, e la Madonna che appare, …ma questo è un altro discorso. Il tempio e i Saraceni sembrano materializzarsi, pur dormienti, in quell’ora meridiana.
Fuori della chiesetta, nel dipinto come nella realtà, di fronte al mare turchino, mentre tutta Crotone, distesa ai piedi di aride colline, immersa nel silenzio, sembra sprofondata nel sonno, ecco che tutto si smaterializza.
“Il calore si rovescia in torrenti benigni sopra a questa desolazione; neppure un’ombra di vapore appanna l’orizzonte; non una vela, non un’increspatura interrompe la linea del mare. Si può ascoltare il silenzio. Il sopore avvolge ogni essere della terra: dormono le cime delle colline, e le valli, i promontori, gli affossamenti, e tutte le creature che muovono sopra la nera terra… Un tale torrido splendore, quando imbeve una terra della più austera semplicità, riconduce lo spirito a stati di primitiva soddisfazione e di altrettanto primitiva ricettività. Si delinea nella nostra fantasia una nuova visione delle cose umane, un suggestivo senso di benessere, in cui non trovano posto le sciocche difficoltà e i contrasti del nostro tempo. Liberarsi da questi legami, ritrovare l’affinità con un elementare e vigoroso archetipo, amante della terra e del sole… Come sono felici questi attimi di aureo equilibrio! Si, è un bene lasciarsi sommergere da questa atmosfera aspra e vibrante, nel fulgore meridiano delle cose. E’ questo il mezzogiorno definito dai greci l’ora “pesante”, quando i templi non sono calpestati da sacerdoti né da fedeli: Adesso la chiamano Controra. Uomini e bestie sono incatenati dal sonno, mentre gli spiriti si aggirano intorno. Il demone del mezzogiorno, l’Abitatore dei calmi spazi azzurri… E il genio che indugia su questo antico Capo della Colonna è ingenuo e benigno”. (Norman Douglas, op.cit., pagg 483/484)
“Il sole cade a piombo, tutto è sospeso e turbato, ogni moto è coperto, ogni rumore soffocato. Non è ora d’ombra né ora di luce, E’ l’ora della monotonia estrema, è l’ora feroce”. (Ungaretti, La risata del Jinn Rull)
La Realtà Unica si ritrova testimoniata in quel sole che destruttura il tempo e scatena e accomuna tutte le cose. La sua sovrapposizione su tutte le cose comporta la loro identificazione con l’Unico. E’ il sole estremo, il silenzio apocalittico, la fine di tutto.
E’ in mezzo a questo nulla, in questo istante perfetto, appare lei, la colonna. La sua figura è armoniosa, perfetta, e riflette l’anelito divino o addirittura la Divinità stessa.
Gli altri che, abbagliati dal sole, son voluti restare all’ombra del pergolato del bar, si sono persi quest’attimo perfetto che noi abbiamo intuito ed abbiamo fortissimamente voluto assaporare e vivere. Chi ha visto il film “Picnic ad Hanging Rock” ci capirà. Chi è rimasto al bar ha fatto come le collegiali rimaste ai piedi della roccia per fare picnic. Chi ha raggiunto la colonna sotto quel sole abbacinante ha fatto come quelle ragazze che salirono in vetta alla roccia e come noi ne rimasero abbagliate.
La colonna ha una sobrietà, una semplicità, una perfezione di forme che a tutti noi (eravamo in tre, Mahdi, Wassim ed io) ha suscitato le medesime sensazioni. Cosa c’è di islamico in questa colonna? Resto di un tempio costruito dai greci pagani, riutilizzato e poi distrutto dai cristiani? Tutti e tre abbiamo risposto che sono la sua perfezione, la sua unicità, la sua solitudine, nonché il deserto circostante a donargli la capacità di simboleggiare il Dio Unico e a far si che anche questo luogo possa essere indicato come uno dei “luoghi dell’Islam” che andiamo cercando attraverso le terre di Napolitania e Sicilia e che abbiamo già trovato a Segesta, a Selinunte, nella fortezza di Lucera, a Villa Rufolo di Ravello, sulle rocce di Pietrapertosa, a Santa Maria di Siponto, al Foro Italico di Palermo, in piazza del Carmine a Napoli, a Borgo Croci di Foggia e che, con l’aiuto di Dio, cercheremo e troveremo ancora in altri luoghi delle nostre amate Due Sicilie.

domenica 31 agosto 2008

Pietrapertosa, l'Alpujarra delle Due Sicilie



Per chi non lo sapesse l’Alpujarra è una regione montana dell’Andalusia dove nel quindicesimo secolo trovarono il loro ultimo rifugio i moriscos ovvero quelli che rimanevano dei musulmani spagnoli perseguitati dall’intolleranza oscurantista che aveva preso il potere nella regione iberica.
I moriscos, in quella terra pressoché irraggiungibile, tra alte vette e mulattiere, riuscirono a resistere ancora un secolo su quel territorio che era diventato la loro patria e che non volevano abbandonare.
Io personalmente l’Alpujarra non l’ho mai visitata, ma da quel poco che ho potuto vedere sul web e dall’immagine fantasiosa e romantica che me ne sono fatto, la immagino come una regione tutta vette e paesini dove si respira un’atmosfera da tetto del mondo, nel senso che più in alto di là non si poteva andare.
Quando questo Ferragosto decidemmo di visitare Pietrapertosa, tutto ci aspettavamo fuorchè di trovare una piccola Alpujarra di casa nostra.
Si, sapevamo che in questo paese, a cavallo tra il nono e decimo secolo, dall’872 al 907, c’era stata una presenza arabo-islamica, ma di questa presenza sapevamo che poco o niente era rimasto, e quindi la nostra maggior aspettativa era riferita all’aspetto paesaggistico della zona nonchè al famoso "Volo dell'Angelo", un cavo steso tra Pietrapertosa e la dirimpettaia Castelmezzano, appeso al quale ci si lancia in un volo di attraversamento "aereo" della stupenda vallata.
Quando siamo arrivati, siamo subito rimasti a bocca aperta per gli attesi aspetti paesaggistici: guglie di rocce appuntite che costellavano il paesaggio e facevano da quinta ad un pugno di case raccolte strette strette e addossate a queste rocce. Ma anche la visita del paesetto non è stata da meno, rivelando anzi aspetti e sensazioni inaspettate. Percorrendo le sue strette viuzze, tra rocce e case che si compenetrano in uno stretto connubio nel quale, in mancanza di emergenze architettoniche, è la natura a farsi monumento, ecco che abbiamo cominciato a sentire quell’atmosfera da tetto del mondo di cui dicevamo prima a proposito dell’Alpujarra. Casette lillipuziane tra le quali s’insinuavano minuscoli orticelli, segno questo di un ambiente che secoli addietro dovette vivere una situazione di "assedio" ovvero di indisponibilità del territorio circostante; portoncini e finestre erano spesso riquadrate con fasce di color azzurro Sidi Bou Said di tipo maghrebino e la più bella di queste finestre ci venne subito di definirla “la finestra sopra il cielo”. Dai pannelli informativi che punteggiavano qua e là le stradine abbiamo appreso gli elementi fondamentali della storia del paesino. Pare che un certo Bomar, evidente italianizzazione di Abu Omar, insieme alla sua gente, forse reduci da Bari, già capitale dell'Emirato pugliese, ma conquistata dai cristiani l’anno prima, e quindi probabili sbandati in cerca di un rifugio, abbiano fondato questo paese e la sua incredibile fortezza posta sulla cima più alta di queste Dolomiti Lucane, costituendo un insediamento arabo islamico che è sopravissuto su questa montagna per non poco tempo. Qui si eran potuti arroccare, più a lungo che altrove, a guardare senza essere visti. Intorno a lui un mondo ostile o quanto meno estraneo anche se, a pochi chilometri l’uno dall’altro, altri “ribat”, altri insediamenti arabo-islamici, come Tricarico, Abriola, Guardia sul Basento punteggiavano la regione e rendevano meno inquietante questa situazione.
Sulle tracce di Abu Omar ci siamo incamminati io e il mio atletico genero musulmano affrontando ostacoli sempre più difficile ed emozionanti. Prima una ripidissima salita seguendo i cartelli turistici che indicavano la rabata (il ribat). Poi la salita già difficile cedeva il passo a due rampe a gomito costituite dall’impalcature dei lavori di restauro della fortezza, impalcature sospese nel vuoto e con il vuoto ai lati, che per chi come me soffre di vertigini e di fifa cronica non erano il massimo della tranquillità. Siamo così arrivati alla fortezza che di integro ha conservato ben poco: qualche torrino, tratti di mura ecc… Il tutto in totale e armoniosa fusione con le rocce che ne costituivano le fondamenta e spesso anche le pareti.
A questo punto rimaneva da percorrere una rampa di scale scavata nella roccia davanti alla quale mi sono piantato come un mulo, lasciando l’onore al solo ed intrepido genero di raggiungere solitario la vetta.
Ho utilizzato però quei minuti per pensare (cosa che mi riesce meglio dello scalar montagne) e cercare di immaginare quella sparuta popolazione islamica giunta lì a prezzo di chissà quali sacrifici e sfidando chissà quali pericoli, cosa doveva provare guardando quell’infinito panorama di monti e vallate che si estendeva ai loro piedi. Cos’è che gli mancava di più? La loro patria di origine, l’Africa o la Sicilia, verso la quale s’erano ormai tagliati tutti i ponti, oppure la stessa Bari, loro patria d’adozione, con il suo mare e la sua luce mediterranea, e ormai perduta? E che speranze avevano di riuscire a sopravvivere su quelle vette, e per quanto tempo? Per tutta la loro vita, per quella dei loro figli, per sempre? O solo per poco, per poi ripartire, se fortunati, verso un nuovo rifugio? E in quella provvisorietà si dotarono ugualmente di luoghi per pregare, per rivolgere a Dio l’adorazione dovuta, dovunque e comunque, come ad ogni buon musulmano si conviene? Beh, una risposta almeno a quest’ultima domanda forse l’abbiamo avuta, o per lo meno ci piace immaginare di averla avuta. Infatti al di qua della muraglia che guarda la valle, abbiamo notato le basi finemente lavorate di quelli che dovevano essere due pilastroni che fronteggiandosi, dovevano reggere una grande arcata, segno evidente dell’esistenza di una sala non destinata ad usi militari bensì per usi più nobili. Poi sulla parete esterna di questa sala abbiamo notato una nicchia. Non era l’apertura di una finestra perché chiusa verso l’esterno. Inoltre vagamente accennata una forma a cipolla dell’arco della stessa nicchia. Con mio genero ci siamo guardati in faccia e non c’è stato bisogno di parlare. Lui ha tirato fuori dalla tasca l’immancabile bussola che accompagna ogni musulmano quando si reca in luoghi sconosciuti e che serve per individuare la direzione della Mecca (qibla). L’abbiamo posta su una pietra piana e abbiamo aspettato trepidanti che l’ago calamitato si fermasse. Il risultato era quello che speravamo e ci aspettavamo: quella nicchia era rivolta alla Mecca ed era quindi probabilmente il “mihrab” che indicava la "qibla", e quella sala ormai scoperchiata e dalle mura smozzicate doveva essere la moschea nella quale i soldati della guarnigione rivolgevano la loro adorazione ad Allah.
Immediatamente quella sala, nella nostra fantasia, si affollò di quei nostri fratelli di tanti secoli fa che s’inginocchiavano, s’inchinavano e si rialzavano eseguendo le loro preghiere. Nonostante tutto, nonostante la loro solitudine, il loro isolamento, il loro sbandamento, il loro legame con Dio non si affievoliva nè si spezzava. “O fratelli nostri, che avete portato la parola di Dio in queste terre, che avete posto la vostra vita al Suo servizio, eccoci qui, siamo venuti a trovarvi, a portarvi una parola di consolazione e di affetto. La vostra avventura non è finita. Siamo qui noi che con l’aiuto di Dio continueremo a portare lo stendardo dell'Islam sulla nostra nobile terra delle Due Sicilie”.
Quando poi siamo scesi e tornati al parcheggio, abbiamo steso la stuoia accanto alla nostra auto e abbiamo pregato. Chissà se in tutti questi secoli, da quando la gente di Abu Omar abbandonò questi luoghi, qualche altro fratello aveva fatto risuonare i versetti del Corano su queste montagne. Se così non è stato, saremo stati i primi dopo undici secoli. E la lode sia a Dio che ci ha concesso di vivere questa giornata.

martedì 27 maggio 2008

Blas Infante, l'Islam e l'identità andalusa


Blas Infante, l’Islam e l’identità andalusa
tratto da un articolo di Ali Manzano (www.webislam.com)
Nel 1983 il Parlamento di Andalusia approva all’unanimità il proprio Statuto di Autonomia riconoscendo Blas Infante “come Padre della Patria Andalusa”. Egli riuniva in sè tutte le caratteristiche necessarie per questa figura: martire, assassinato dalla destra “ispanista”, e rappresentante di quell’idea autonomista che la dittatura del generale Franco aveva stroncato.
Me se guardiamo oltre la “icona” di Blas Infante fattaci pervenire dai politici, troviamo un’opera e un pensiero, accompagnati da un’azione sociale, politica e culturale, che sicuramente, nè ai politici di oggi nè a quelli di ieri risulta comoda. Blas Infante fu un “rivoluzionario” che visse e pensò “controcorrente”, rinunciando ai privilegi di cui godeva la sua classe sociale. Appartenente alla borghesia andalusa, egli abbraccia la causa dei braccianti, i discendenti di quei moriscos che la terribile conquista Castigliana lasciò senza terra. Aveva ricevuto una formazione accademica nella quale la storia dell’Andalusia non esisteva, se non attraverso la visione distorta e interessata dei colonizzatori castigliani. Ma egli la rivoltò, fornendoci la chiave e la strada per il recupero della memoria storica, occultata da cinque secoli di cultura imposta. Infine Blas Infante, nato cristiano, si riconosce musulmano, recuperando il “Din” (cammino dell’Islam) dei suoi antenati, la forza vitale di Al-Andalus.
Se rimuoviamo i veli posti sulla nostra mente dai pregiudizi culturali che 500 anni di “guerra contro il moro” e dall’educazione “uniculturalista” imposta, vedremo e comprenderemo il processo e le motivazioni che condussero Infante su du un cammino che poteva condurlo solo e soltanto all’Islam. Sono tantissimi gli andalusi che hanno percorso lo stesso cammino, ma il caso di Blas Infante è particolare essendo improntato ad una qualità affatto comune nell’essere umano: l’intuizione. La sua intuizione lo portò a scoprire tutto un Universo che a noi andalusi era stato celato dopo la conquista Castigliana. Non ci stiamo riferendo soltanto alla storia, tanto diversa da quella che i nostri conquistatori ci hanno raccontato, ma a filosofia, scienza, letteratura, arte, spiritualità… in definitiva, la nostra identità. Nessuno, dalla conquista cristiana in poi ebbe la capacità di enunciare l’essenza dell’Andalusia, l’identità perduta. Solo l'intuizione di Infante fu capace di riscattare quel che i nostri conquistatori, con tanto affanno, tentarono di nasconderci.
L’intuizione porta Blas Infante all’Islam, allo scoprire l’importanza e l’influenza dell’Islam nel movimento rivoluzionario che a partire dal secolo VII iniziò a provocare il risveglio del genio andaluso, fino al fiorire di quella civiltà che fu orgoglio dell’Andalusia e oggetto dell’invidia universale.
Blas Infante fu un “cercatore”, sul piano personale e su quello collettivo. Non smise mai di porsi domande, di cercare risposte che condurranno lui e la sua grande passione, l’Andalusia, sul cammino della liberazione. Questo cammino di liberazione, lo porta a volgere lo sguardo alla storia, a cercare in essa un punto di partenza, e a trovarlo nel periodo storico di maggior splendore culturale, scientífico, sociale e politico: Al-Andalus. Infante voleva dotare il popolo Andaluso dell’orgoglio e dell’identità perduta, come strumento di liberazione, per cui la prima missione che s’impone è quella di riscattare la storia, di dotare l’Andalusia di una interpretazione storica proveniente da se stessa, senza menzogne né interessi ad essa estranei.
Nel 1921, studia la storia di Al-Mutamid, il Re poeta di Siviglia e Cordoba, scrivendo il dramma teatrale “Mutamid, ultimo Re di Siviglia”. La “metamorfosi” è iniziata. Il giovane notaio di Casares è rapito dall’Universo andaluso, non si rassegna ad essere un semplice spettatore, ma desidera participare alla esperienza andalusa, interiorizzando l’essenza della filosofia che ne svegliò il genio, abbeverandosi alle sue origini intellettuali, convertendosi nel protagonista del suo dramma teatrale. Inizia così a preparare il viaggio che lo porterà fino alla tomba di Al-Mutamid ad Agmat, vicino Marrakech, per riannodare, dopo una pausa di 600 anni, il filo delle peregrinazioni che da Al-Andalus si recavano a rendere omaggio ad un uomo che rappresentò ed ancora oggi rappresenta il silenzio dell’Andalusia, dell’Islam andaluso.
L’Andalusia, terra a cui l’Islam portò gli arnesi con cui forgiare la libertà, basata sul rispetto di tutte le forme d’intendere la vita e la spiritualità, si ritrova sotto pressione e ingabbiata dai terribili fondamentalismi dei popoli del Nord e del Sud, che ai tempi di Al-Mutamid a Siviglia e di Boabdil a Granada, misero termine al sogno di un popolo che una fredda mattina di gennaio dell’anno 1492 si svegliò schiavo dell’odio e dell’invidia dei popoli barbari del Nord.
Con l’illusione di chi cerca un tesoro, Blas Infante inizia i preparativi del viaggio che lo condurrà sulle orme di Al-Andalus, che nella nostra terra è semi-occultata sotto il tallone di 500 anni di genocidio físico e culturale, ma che in Marocco ancora sopravvive negli edifici costruiti dagli Andalusi e nelle forme culturali ereditate da un’influenza che dura da centinaia d’anni.
Il motore del cambiamento che generò questa civiltà fu l’Islam. Lo incontriamo ogni volta che ci immergiamo nella storia di Al-Andalus, o quando proviamo a conoscere le motivazioni che portarono i nostri avi a produrre questo cambiamento “rivoluzionario” che capovolgendo le strutture economiche, politiche e sociali imposte dalla minoranza Visigota, tirarono fuori l’Andalusia dalla buia Età Media per anticipare il Rinascimento che secoli più tardi e grazie all’influenza Andalusa, sarebbe arrivato in Europa.
Infante era fortemente interessato a conoscere questo “generatore” di civiltà. Non poteva mancare quindi lo studio della lingua nella quale fu scritto il Corano, l’arabo, punto saltato in tutti gli studi dell’opera di Blas Infante, i quali, per aver ignorato l’Islam, non hanno potuto valorizzare l’importanza del dato. L’arabo, lingua del “Corano”, veicolo di trasmissione della “rivelazione Muhammadiana”, è lo strumento del quale si dota l’Islam per impedire la travisazione dei testi coranici.
Con l’apporto dell’arabo e dell’Islam, quello che era nato come un viaggio culturale per rendere omaggio all’ultimo uomo che regnò su di una Siviglia libera, si mutò in qualcosa di molto più intimo…, forse in un metaforico “Hajj”, (pellegrinaggio alla Mecca) quasi a voler adempiere ad uno dei pilastri dell’Islam.
Il viaggio si trasfigura in pellegrinaggio. Supera l’interesse culturale senza tuttavia dimenticarlo. Abbandona ogni frivolezza turistica e va a rendere rispettoso omaggio al Re, adempiendo al rituale disposto nell’Islam.
Nei manoscritti di Infante possiamo vedere l’animo col quale egli si dispone a questo pericoloso viaggio. E’ l’animo di un morisco andaluso, ansioso di incontrarsi con parte della sua storia, con quella che per essergli stata nascosta è la più desiderata:
Più di un milione di nostri fratelli, di andalusi espulsi ingiustamente dalle loro case avite - le cause dei popoli non vanno mai in prescrizione – sono sparsi da Tángeri a Damasco. Il ricordo della Patria, lungi dallo sfumarsi, si ravviva giorno dopo giorno. Io ho convissuto con essi, ho sofferto con essi, ho respirato con essi la speranza della nostra comune redenzione perché questa redenzione o sarà comune o non ci sarà mai.
Nell’anno 1924 mi decisi a riannodare (il filo de) i pellegrinaggi che i nostri avi fecero per un certo tempo alla tomba di uno degli uomini più rappresentativi dello spirito della nostra terra, Abu-l-Qasim ibn Abbad, vero re di Siviglia, Córdoba, Málaga e Algarve. L’ultimo pellegrino era stato un figlio della mia montagna di Ronda, Alkhatib, ministro del sultano di Granada, nel secolo XIV. Sei secoli senza che l’Andalusia inviasse il suo “saluto” attraverso uno dei suoi figli al sepolcro del Re poeta che morì in esilio lontano, invocandola nei suoi dolorosi versi.
Grazie ad una serie di fortunate coincidenze giunsi a trovare la tomba del Re nel cimitero in rovina di Agmat, al sud di Marrakesh, sulle pendici dell’Alto Atlante.
Non avevamo altre armi né altra scorta né altra bussola che il nostro entusiasmo e il nome di Al-Andalus che disperdeva i timori e acquietava le tensioni che la nostra audacia risvegliò a volte e ci apriva le porte di quei contadini di montagna che furono tanto prodighi d’ospitalità”.

Nel contatto con questo popolo marocchino, emigrato in Maghreb per conservare lingua, costumi e pratiche (religiose) islamiche, Infante trova l’anello mancante tra la mitica e rimpianta Al-Andalus, celata dalla pesante coltre della conquista castigliana, e l’Andalusia della sua epoca. Qui, in Marocco, di fronte a innumerevoli e impressionanti vestigia dell’arte andalusa, e in compagnia dei discendenti dei moriscos Andalusi, Infante incontra la vera dimensione di popolo, di nazione:
“Il popolo andaluso fu scacciato dalla sua Patria dai re spagnoli; alcuni vivono ancora uniti, ma in paesi stranieri; altri, quelli che restarono e quelli che tornarono, i braccianti moriscos che abitano l’antica casa avita, sono esclusi inesorabilmente dalla terra che ancora è signoreggiata dai conquistatori. Ed è necessario unire gli uni agli altri. I tempi saranno ogni giorno sempre più propizi”.
“(Al-Mutamid) fu l’ultimo Re indigeno che rappresentò degnamente e brillantemente una Nazionalità e una cultura intellettuale che soccombettero sotto la dominazione dei barbari invasori. Si ebbe per lui una specie di predilezione come per il più giovane, come per il beniamino di questa numerosa famiglia di principi poeti che abbiano regnato in Al-Andalus. Se ne avvertì la mancanza, come l’ultima rosa della primavera”.
“Non sono forestiero a Marrakesh. I mori andalusi predominano nella composizione etnica della medina musulmana. (…) Marrakesh è per il mio pellegrinaggio, il limite della terra Santa, del Tempio. Ora, i riti vivono. Ora l’anima prega, accesa di religioso fervore. Ho indossato il “hizam” del pellegrino. Faccio una abluzione alla fontana della storia, con fecondi valori, figlio di una cultura che si pretese d’accecare e che divenne sotterranea e di discorso oscuro”.
Il 15 di Settembre del 1924 Blas Infante giunge al culmine del suo viaggio davanti alla tomba di Al-Mutamid. Quel che in principio fu un viaggio culturale, attraverso l’impronta storica di Al-Andalus, si era convertito in un incontro “spirituale”, un viaggio che potremmo definire “iniziatico”. A partire da qui, Blas Infante non tornò più ad essere lo stesso. Si era incontrato con la ricchezza di un Al-Andalus vivo nei discendenti dei moriscos, e con un Islam che non era soltanto nei libri, che era sufficientemente vivo per sentirlo, nella maniera in cui solo un “mumin” (credente) può farlo, intuendolo con il cuore che s’abbandona in Allah. Davanti alla tomba di Al-Mutamid, Infante ripete il rituale che si compie alla Mecca, come sua particolare forma di adempiere ad uno dei cinque pilastri obbligatori dell’ Islam: il Hajj o pellegrinaggio. Così Infante compie sette giri attorno alla tomba di Al-Mutamid, in senso opposto a quello delle lancette dell’orologio, a somiglianza dei sette giri che i pellegrini musulmani compiono alla Mecca intorno alla Kaaba.
Il 15 Settembre 1924 (Infante) recita la Shahada in una piccola moschea di Agmat, adottando il nome di Ahmad. Testimoni dell’atto con il quale egli si riconosceva musulmano, furono due andalusi nati in Marocco e discendenti dei moriscos: Omar Dukali e l’altro della kabila dei Beni-Al-Ahmar.
Il cammino che conduce Infante all’Islam, può sembrare strano a molti. Ad altri può sembrare una stravaganza permessa solo ai geni, prodotto dall’ammaliamento che Al-Andalus ha esercitato in molti personaggi nel corso della storia, o un tentativo di imitare quei re andalusi, che Infante tanto ammirava.
Ma noi che abbiamo seguito il suo stesso cammino, - Al-Andalus ci ha portato all’Islam - sappiamo della forza interiore dell’Islam e degli effetti prodotti dall’interiorizzazione di tutta una filosofia e di una forma d’intendere la vita, la creazione e la spiritualità, in base al compromesso con certi valori.
La sua relazione con l’Islam non si ferma ad Agmhat. Continuerà per tutta la sua vita, nei suoi scritti, nel suo modo di intendere la vita e nei suoi atti, con un compromesso rinforzato per e con la sua gente, la sua patria, il suo Din (cammino dell’Islam), che lo condurrà a vivere la stagione più produttiva della sua vita, tanto a livello letterario che politico, verso la divulgazione della storia e della cultura andalusa, nel suo intento di dar corso alla battaglia nel campo in cui i conquistatori più danno ci avevano arrecato, il campo della cultura.
Il suo interesse per riscattare la cultura andalusa lo porta a compiere un questo gran lavoro culturale nel quale è compresa, tra le altre cose, la richiesta al governo della restituzione della Sinagoga di Toledo alla Comunità Ebraica e della Moschea Aljama di Cordoba a quella Islamica. Una campagna a favore della costruzione di una moschea a Siviglia “non con animo di fare professione o confessione di una determinata religione, bensì con l’obiettivo di affermare la libertà e la pluralità religiosa, elementi di sintesi della Storia dell’Andalusia”, in lotta contro il pregiudizio contro il “moro” che cinquecento anni di acculturazione avevano impregnato il popolo Andaluso.
Lavoriamo con somma cautela su questi principi perché l’Andalusia torni ad essere ispirata dal suo proprio genio e perché noi, “gli andalusi, torniamo ad essere quel che fummo”.

venerdì 16 maggio 2008

Due Sicilie: passato, presente e futuro


Nicola Zitara è un grande intellettuale e storico della nostra patria siciliana. L'articolo che segue, che ho ritrovato su di un forum, è una perfetta analisi storica e culturale delle Due Sicilie. Detto articolo, che mi sono permesso di sfrondare e schematizzare un po' per renderlo più fruibile - non me ne voglia Zitara - ha , tra le altre cose, il pregio di mettere a fuoco qualcosa che intuivo, ma non riuscivo a mettere a fuoco (qui sta la differenza tra una persona comune come me ed un intelletuale come Zitara): il concetto di Continente Mediterraneo. L'ho fortemente sentito questo concetto di fronte al mare di Mazara, Selinunte, Marinella. Quel mare non doveva essere un ostacolo nè un confine, come oggi è, quanto piuttosto il centro, la piazza principale di questo continente, dei quali le Sicilie ne sono una importante quinta di sfondo. E le case di Marinella, abbarbicate al costone, sembravano tante persone che scrutavano l'orizzonte in attesa del ritorno di qualcuno o di qualcosa che gli (ci) era stato strappato con la forza.
Vi auguro una buona e proficua lettura.
Mustafa

COMINCIAMO!

di Nicola Zitara (da "Due Sicilie" n. 6 (nov/dic 2005)

La storiella delle Due Sicilie destinate a far da ponte tra l'Europa e l'Africa è dura a morire.
La realtà è che più che fare da ponte con l'Africa, le Due Sicilie rischiano di finire esse stesse in Africa. Quest’asserzione, per quanto vera, viene utilizzata dall'intera classe politica per incitare i siciliani a non essere insofferenti e ad avere pazienza.
Molti, nel constatare lo strano e persistente fenomeno del dualismo italiano, (un paese a due velocità) non riesce a darsi altra spiegazione che quella di un siciliano aggrappato a costumi antichi e selvaggi. Idee del genere sono alquanto diffuse. La proverbiale diffidenza verso di noi è persino cresciuta di tono. Ma poi, perché sorprendersene quando noi stessi siamo tanto severi con noi stessi? Spesso vorremmo essere milanesi, genovesi, torinesi. I giovani nati in Padania da genitori siciliani si affrettano a giustificarsi: "Sí, è vero, i miei genitori sono siciliani, ma io sono nato qui!"
Noi popoli delle Due Sicilie abbiamo introiettato la dipendenza. Ma questo fenomeno incontestabile non spiega la ragione del perché siciliani e padani si sentano nemici nel profondo.
Secondo i padani e la “versione ufficiale” (e con i siciliani a dargli spesso ragione) l'italiano 'vero' sarebbe il tosco-padano. Gli altri riescono si e no ad esserne una mal riuscita imitazione. Centocinquant’anni di vita unitaria non sono bastati a superare i presunti 'ritardi storici' che le Due Sicilie portavano con sé e che i 'perfidi' Borbone, 'nemici di ogni progresso', non vollero affrontare. Siamo gente perduta, non redimibile.
Chi si limita a giudicare il presente, di regola addebita la colpa dei «mali del Sud» alla rapacità dei gruppi dirigenti e degli uomini di governo. Tuttavia una più matura riflessione porta a non separare il presente dal passato.
Partiamo da una constatazione. È noto che le Due Sicilie ebbero momenti di grande splendore durante i quali registrarono autentici primati civili e culturali. I principali di questi momenti furono la Magna Grecia, il Medio Evo e l’epoca dei Borbone. Il primo è universalmente riconosciuto e non disturba i sonni di nessuno; sugli altri si mette invece la sordina. Essi sono noti agli addetti ai lavori, ma vengono taciuti o sminuiti verso l'opinione pubblica.

1) L’età antica e la Magna Grecia
Di Magna Grecia ci riempiamo la bocca, ma quando si va a cercare quello che fu e come finí, la visione si annebbia. Siamo intorno al 300 a.c. Atene e le altre città greche vanno decadendo. C'è una sola strada per rinascere, quella d'incettare nuove risorse. La civiltà ellenica si espande allora in tutto il Mediterraneo. Dovunque, lungo le sue sponde, fiorisce una cultura fine e moderna, non più nazionale o nazionalista, l'ellenismo. Il Continente Mediterraneo non ha frontiere. Le capitali della vasta comunità sono Alessandria (d'Egitto) e Siracusa.
Domanda: Chi distrusse quella grande civiltà che aveva portato i territori del Sud Italia a un livello di civiltà più avanzato dell'attuale? Dispiacerà sentirlo, ma la risposta è: Roma! Ma perché tanta barbarie? Perché ammazzare Archimede, il fondatore delle scienze fisiche, un uomo di cui Copernico, Newton ed Einstein sono solo i continuatori?
Il motivo è che solo al Sud Roma avrebbe trovato le risorse necessarie per difendersi dai barbari padani. In verità Roma non distrusse soltanto Cartagine, come si legge comunemente nei libri di scuola, ma anche la civiltà e soprattutto la libertà del mondo italico, e utilizzò il primo disastro storico del Sud per finanziare la romanizzazione della Valle Padana, per edificare una cinta muraria intorno a Piacenza e per recingere un castrum che in appresso si chiamerà Mediolanum.
Roma inaugura una bilancia politica e culturale valida ancor oggi: i costi da affrontare per innalzare il Centro-nord, vanno scaricati sul Sud. È tutt'altro che vero che Roma abbia unificato la penisola. Amor di patria (italiana) pretende che nozioni dei genere siano nascoste alle menti dei giovani. Inquinerebbero l'albero genealogico dell'elmo di Scipio!

2) Il Medio Evo ed il Regno di Sicilia
La morte in battaglia di Manfredi parla chiaro circa la concezione politica, che ispira da sempre gli altri 'italiani'. Nell'occasione di questa seconda aggressione, Roma non è sola. Le stanno attorno i Comuni tosco-padani (i guelfi) ingordi di prede siciliane.
Sopraffatto dai barbari nel quinto secolo dell'era volgare l'Impero Romano d'Occidente crolla. Qualche decennio dopo arriva in Italia l'esercito inviato da Giustiniano, l'imperatore romano d'Oriente. Nel tentativo di non perdere definitivamente l'Italia in mano ai barbari europei e agli arabi, i bizantini rimangono in Italia seicento anni, dal Quinto all'Undicesimo secolo d.C. Sono i secoli bui. Dei tempi in cui l'Italia viveva riccamente, in virtù dei tributi che Roma estorceva in tutto l'impero, è rimasto poco o niente. Persino il ricordo del passato si è offuscato. Soltanto i colti ne sanno qualcosa: notizie di seconda mano, mediate dagli storici greci e arabi. L'Italia è impoverita, imbarbarita. L'agricoltura, la manifattura, le città sono tornate duemila anni indietro. L'ignoranza dilaga.
ln questo panorama desolato, soltanto al Sud si conserva, per effetto del legame con l'Oriente, qualcosa del vecchio ordine - per esempio gli scambi di mercato, la produzione artigianale, gli elementi imbalsamati dell'antico sapere. Ancor più fortunata la Sicilia, che vede restaurata l'antica civiltà ad opera degli arabi. Se pu in decadenza, il Sud non cade nella barbarie dominante al di là del Garigliano. Lo testimoniano cento cose. Ne elenchiamo qualcuna.
A fondare e ad operare nei primi centri di livello universitario che il Papato avvia - Grottaferrata e Montecassino - sono dei monaci arrivati dal Sud Italia. La centralità del Sud nell'esportazione di manufatti, che venivano richiesti da re, imperatori, baroni e vescovi barbarici, è largamente attestata. Accanto alla splendida Palermo e alla altre città siciliane, fioriscono Napoli, Amalfi, Bari, Mola, Rossano. Sui territori in mano ai bizantini, i centri marinari godono di una considerevole autonomia privata, e qualche volta politica. I marmi che i papi romani importano per edificare nuove cattedrali vengono trasportati da navi amalfitane. La flotta di Amalfi si schiera in battaglia nelle acque di Ostia, a difesa del papa, e batte i saraceni. L'architettura e la scultura decorativa dell'età classica trovano alimento nella ricchezza dei commerci. Chi ha qualche dubbio su questi primati può facilmente toglierselo leggendo qualche pagina del fiorentino Giovanni Boccaccio e, se non sa leggere, facendosi un giro turistico per la Terra di Bari e il Salento, per fortuna risparmiati dai terremoti che, altrove, hanno distrutto quasi tutto.
Come e perché si esaurì questo corso, se non propriamente grandioso, quantomeno promettente?Anche in questo caso fu la stessa Italia a concepire e a condurre l'operazione d'annientamento. La vicenda è connessa con le Crociate. Il Sud del tempo è una società aperta, la gente non fa questione di pelle, è tollerante in materia religiosa, i cattolici seguono il rito ortodosso, la messa viene celebrata in greco, l'imperatore d'Oriente ha il diritto di mettere una mano nella nomina dei vescovi, i monaci basiliani si sono insediati nei centri jonici e in Sicilia, in molti luoghi si parla greco e non si raccolgono oboli da mandare a Roma. Gli stessi arabi al Sud non sono accolti male, anche perché le loro scorrerie non sono peggio dei saccheggi dovuti ai barbari insediatisi in Italia. Ultima ciliegina: il papa, integratosi nella logica dei regni europei, non gradisce le interferenze dell'imperatore romano d'Oriente. I papi e i re d'Europa pensano che a migliore difesa dell'Europa e del Papato sia necessario spezzare il Continente Mediterraneo, (qui si fa nascere il conflitto di civiltà!!). E siccome il Sud ne è la punta avanzata, bisogna che esso diventi una colonia d'Europa!
Il compito viene affidato ai normanni. Questi, una volta padroni di questa terra mostrano una forte perplessità ad imbarbarirla. Essi allora non solo non la conducono in rovina, ma se ne fanno ammaliare arricchendola vieppiù. Poi, a mettere in serio pericolo il disegno di partenza vi è l’esaurimento della dinastia regnante che porta sul trono di Sicilia Federico II, erede anche del trono imperiale. Il nuovo re, obbedendo alle istanze provenienti dalla progredita collettività siciliana, progetta, per primo al mondo, uno Stato modello: laico, robusto nelle istituzioni e aperto al progresso. Ma è proprio quanto non vogliono la Chiesa e i tosco-padani. Federico viene fortemente contrastato. Non vince e non perde, anche perché muore ancora giovane. La Chiesa dichiara la Crociata contro il Regno di Sicilia (unico caso di Crociata contro un paese cristiano, ma amico dell’Islam!). Suo figlio Manfredi perisce eroicamente in battaglia. Gli altri successori di Federico cadono per mano francese-angioina. Per il concerto delle nazioni barbariche (una sorta di “comunità internazionale ante litteram!) e per i “liberi” comuni padani il Regno di Sicilia sale alla dignità di colonia d'Europa!
A poco vale l’eroica rivolta del Vespro Siciliano, se non a rendere indigesto il boccone. Nei cinque secoli compresi tra il tempo in cui Dante era un giovanetto (1280) e quello in cui si spegne Giambattista Vico (1744), il Sud percorre un cammino a ritroso, taglieggiato com'è dai baroni francesi e spagnoli, e impoverito dalle usure genovesi e fiorentine.

3) I Borbone ed il Regno delle Due Sicilie
Il ritorno all'indipendenza nazionale, nel 1734, è il risultato del 'illuminismo napoletano' di cui la dinastia borbonica si propone come garante e guida operativa. I Borbone si propongono di riportare il paese alla modernità commerciale e industriale e di difenderlo dalla politica di rapina di Inghilterra e Francia, nascosta come al solito dietro lo sventolare di bandiere liberali e ugualitarie.
Naturale quindi che l'indipendenza delle Due Sicile sotto l’ombra protettiva dei Borbone sia mal digerita da Francia e Inghilterra. Una tacita congiura tra eroici “patrioti”, scaltri politicanti e incalliti diplomatici, stronca l'intelligente e generoso tentativo di modernizzazione. Le Due Sicilie cessano d’esser tali e diventano “il Sud”. Riprecipitano nelle grinfie della politica europea, impostata sulla crescita attraverso la colonizzazione, e diventano nuovamente un territorio di pascolo aperto alle usure tosco-padane.

Le fatiche di poeti e studiosi e l’opera della Chiesa romana hanno fatto si che gli italiani elaborassero una lingua (quasi) comune e sedimentassero una tradizione consimile.
Ma non unitaria. Le due parti del paese sono state assieme politicamente soltanto per qualche secolo, dal regno di Tito a quello di Costantino. Sin dal tempo della prima colonizzazione greca esistono due formazioni sociali, due Italie, una che viene dal mare e una nata dalla terra. Roma, alle origini città etrusca o largamente etrusca, si è estesa verso nord, fin oltre le Alpi, ed è ancora la postazione più meridionale del “continente Europa”.
A sud di Roma, la società si apre quando arriva un contatto dal mare, e si gela quando il contatto arriva da nord. Quest’alterità, questo scontro di faglia tra il “Continente Europa” e il “Continente Mediterraneo” si manifesta lungo il confine delle Due Sicilie. Basta guardare una cartina geografica, per rendersene conto. Tra il reticolo metropolitano che si affaccia sul Golfo di Napoli e quello della Bassa Padana, c’è tutta una zona a bassa intensità abitativa che oggi trova eccezione in Roma Capitale, ma che fino a non molto tempo fa era uniforme (prima dell’Unità Roma era poco più di un paesello). Quindi due formazioni sociali scarsamente comunicanti fra loro, e solo debolmente integrate sul terreno politico e sociale ad opera della Chiesa romana.
Il nostro Sud dunque non è mai stato Europa, ma una colonia d'Europa. Il generoso tentativo di Federico II di fare dello Stato un'opera d'arte si è esaurita con l'inconsistenza di un sogno. Il progetto dei Borbone di allentare la morsa della colonizzazione europea, si è spenta con il tradimento della classe baronale e sotto l'onda del loro finto liberalismo.

Ed eccoci all’oggi in cui non c'è un solo aspetto della vita sociale che non sia impantanato. La disoccupazione imperversa sin dal giorno in cui i bersaglieri instaurarono l'ordine padanista nelle Fonderie di Mongiana e nello stabilimento di Pietrarsa. Da quel lontano anno il Sud italiano ha ininterrottamente prodotto milioni di disoccupati e interminabili eserciti di emigranti. Ma anche questo sogno “esogeno” oggi è off limits, così come è inconcepibile mettere in atto l'altro corno dello storico dilemma 'o emigranti o briganti'. Il sistema politico italiano prevede che l’autonomismo, o federalismo che dir si voglia, e i relativi eventuali moti popolari possano avere dignità politica solo se ispirati e diretti dai partiti padanisti.
Quanto ai politici del Sud, non c'è da fare assegnamento. Il sistema italiano non lascia loro altro spazio che l'uso inverecondo del pubblico danaro. Le cose stanno anche peggio fra la gente comune. Quanto alle aziende private meridionali, esse hanno la teorica libertà di sopravvivere, ma soltanto negli spazi lasciati vuoti dal capitalismo tosco-padano.
L'abbassamento della curva dei salari e la confisca di stipendi e pensioni, collegata alla circolazione dell'euro, completano il disastro.
È immaginabile che tutti questi fattori negativi possano far scoppiare qualche disordine, ma in mancanza di un progetto politico alternativo, tutto quel che il Sud otterrà sarà qualche lacrima di cordoglio in un editoriale del 'Corriere della Sera' e un titolo a tutta pagina su 'Il Manifesto'.
Nessuno può dire quel che accadrà domani. Continuando a scambiare l'effetto per la causa, la mafiosità potrebbe dilagare come l'unica, possibile fonte di sopravvivenza.
Danni ancora peggiori fa l'idea che il Sud debba modellarsi di più e meglio sull'ltalia restante. Il coordinamento romano continua a proclamare, come modello da seguire, quello tosco-padano, ben sapendo che esso non si attaglia alla natura dei popoli della Napolitania (la storica Ausonia) e della Sicilia. Un disastro che dura da 150 anni lo dimostra a sufficienza. Le Due Sicilie sono un paese grande, con una sua storia antica. Come l'India e come la Cina, che avvizzirono sotto la dominazione o l'influenza inglese, e una volta libere sono rifiorite cosi le Due Sicilie, portate al disastro dal governo unitario, riacquisterebbero voce e anima, solo se e quando torneranno libere e indipendenti, o quanto meno autonome.
L'idea che viviamo una condizione coloniale è chiara nella mente di tutti, ma non si sa come uscirne. Ora, dacché mondo è mondo, dal colonialismo non si esce mai per iniziativa del colonizzatore - nel nostro caso di Roma e consorti tosco-padani - ma in seguito a un processo di liberazione e decolonizzazione.
Avverrà sì o no? Come avverrà? Quando avverrà? Nessuno può dirlo. La risposta è nelle mani di Dio. Noi possiamo fare soltanto il nostro dovere di patrioti, di figli di questa terra, di uomini e donne di questo popolo, di padri e madri di altri napolitani, di altri siciliani, a cui potrebbe toccare in sorte la stessa impotenza e le stesse umiliazioni che noi abbiamo patito e patiamo. Il debito di amor patrio, che abbiamo verso di noi e con il mondo, non lo assolveremo da barbari e ingordi di saccheggi liberisti e consumisti, ma da esseri pensanti. Lo faremo con la giusta umiltà dell'inerme, ma anche con l'orgoglio di sentirci pronipoti di Archimede, di Manfredi, di Antonio Genovesi, di Ferdinando II, di Carmine Crocco.

Il nostro primo dovere sta nell'immaginare un'alternativa al presente che sia coerente con i veri bisogni della nazione siciliana. Il primo dei quali è sicuramente un lavoro. Il quadro economico a cui dobbiamo fare riferimento è quello al quale la politica delle potenze europee ci ha strappato: il Mediterraneo.
Il Mediterraneo sta tornando ad essere un crocevia di commercio con l'Africa e con l'Asia. Se resteremo nel quadro nazionale italiano, questa sarà per noi un'occasione perduta. E non perché l'ltalia vorrà tenersi fuori da questa rinascita mediterranea, ma perché i centri nevralgici dei movimento saranno dirottati dalle forze politiche verso Livorno, Genova, Trieste, Venezia. Basti l’esempio di come Ancona sia riuscita a divenire in pochi anni capolinea dei collegamenti con la Grecia, a discapito del naturale e tradizionale approdo di Brindisi.
La Napolitania e la Sicilia hanno gli uomini capaci e le risorse economiche necessarie per portarsi ai livelli più moderni in tutti i settori della produzione. Il fattore che manca è la libertà statuale. Per questo motivo, è supremamente importante la capacità politica e la serietà dei futuro governo siciliano.
Il paese, il nostro paese, le Due Sicile, ha bisogno di un punto fermo. Legge e ordine: e non nel senso reazionario, ma in quello della consapevolezza dei doveri personali verso la collettività. In particolare i giovani vanno riportati al senso dell'onore, dei rispetto di sé e degli altri, all'amore per il lavoro e per il sapere, al senso critico.
Dove c'è lavoro, prosperità e sapere, crescono spontaneamente la cultura e l'arte.
Oggi c'è solo dolore e vergogna. Cominciamo! Non sarà facile, ma non c'è altra scelta. Che lo spirito dei nostri maestri ed eroi poggi una mano benevola sul futuro di questa nostra sventurata nazione.

domenica 4 maggio 2008

Un paese quasi islamico


Un paese quasi islamico
Sono stanco di usare un’espressione soltanto geografica per indicare una realtà complessa. Sono stanco di definire la mia terra come “Italia meridionale”. Bene ha fatto Bossi a coniare per la “sua” terra, l’Italia settentrionale, il nome di Padania. Per una terra il nome è tutto. Esso deve evocare non solo la sua collocazione geografica, ma la sua storia, la sua cultura, il suo modo di vivere, di essere, tutto. Togliete il nome ad un paese e gli avete tolto tutto. Come manifesteremo l’orgoglio di essere figli di una terra se non ne possiamo pronunciare il nome?Ogni cosa oggetto d’ amore ha bisogno di un nome da sognare, evocare, pronunciare, scandire. Questo vale ancor di più per una terra, per amarla, evocarla, sognare il suo riscatto, la sua rinascita, la sua affermazione. E’ per questo che (per ora) definirò la mia terra, quella che va dall’Abruzzo alla Stretto, con lo storico nome di “Ausonia”; e per indicare il suo essere un tutt'uno con la Sicilia dirò “Ausonia e Sicilia” oppure "Due Sicilie”.


Veniamo al dunque. Vorrei parlare della costiera amalfitana dove ho trascorso 10 bellissimi giorni di vacanza la scorsa estate. Questo soggiorno mi ha consentito di conoscerne degli aspetti a me sconosciuti e quindi sorprendenti.

Furore

La nostra “residenza” è a Furore, “il paese che non c’è”. Esso infatti si sviluppa lungo tutto lo strapiombo che da Agèrola giunge ripido e rapido fino al mare. Non ha una piazza, un passeggio, un lungomare; no, le sue case sono aggrappate alla montagna strapiombante, e vi si accede dagli infiniti tornanti che da Amalfi salgono ad Agèrola. Alla definizione ufficiale noi ne abbiamo aggiunta un’altra: “un paese con i piedi nell’acqua e la testa tra le nuvole”. Infatti, una domenica siamo saliti ad Agèrola, paese che inizia laddove finisce il dirupo e inizia l’altopiano. Ebbene, mentre la parte bassa di Furore, ovvero la costa ed il suo magnifico fiordo, era immersa nel caldo sole agostano della costiera, le sue ultime case, poste alla sommità del monte, al confine del territorio di Agèrola, erano immerse nelle nubi rimaste incagliate su quegli alti picchi. Ne derivava un’atmosfera novembrina davvero piacevole oltre che surreale. Molte delle case di Furore sono formate da cellule abitative quadrilatere con copertura a botte, tipologia che poi abbiamo riscontrato in chiave più monumentale anche nel chiostro del Paradiso di Amalfi e nelle chiese arabo-sicule di Ravello. Ebbene queste case dal vago gusto arabo, si chiamano monazzeni, parola che dicono provenga dal greco “vivere in solitudine”. Però è evidente anche l’assonanza tra monazzeni e manazil, che in arabo sta per “stazioni, approdi, casali”. Tali sono infatti queste costruzioni, dei luoghi dove fare sosta, magari quando il mare ingrossa e non consente di raggiungere il porto. Da manazil o monazil a monazzeni il passo sarebbe breve. E’ un segno, una traccia. Del resto il toponimo manazil era diffuso anche in Sicilia per indicare i casali con cui gli arabi popolarono un territorio dapprima desolato. Manzil (singolare di Manazil) Hindi era l’antico nome di S. Margherita Belice, e Misilmeri è la distorsione dell’arabo Manzil-Amiri, il casale dell’Emiro.

Amalfi


Qui non si vedono immigrati, nè musulmani nè tanto meno cristiani. Non vediamo le classiche bancarelle degli ambulanti marocchini né i negozi di chincaglierie pakistane. Non ci sono kebab, ma ne comprenderemo presto il motivo: qui la cucina tradizionale è così forte e viva (e gustosa) che non necessita di elementi d’importazione. Tuttavia, quando nei giorni seguenti siamo entrati in una farmacia di Furore, abbiamo sentito il farmacista che prendeva una telefonata e a chi l’aveva chiamato ha risposto: “Dimmi, Hassan, cos’è successo?” Ci sono, ci sono i musulmani. Non fanno gli ambulanti e quindi non si vedono. Forse lavorano nei campi terrazzati della montagna, dove coltivano limoni e “cucuzzille” giganti, o lavorano negli alberghi, chissà, ma comunque ci sono, e questo è importante. Non sono andati perduti come i loro bagni e le loro moschee maiolicate. Ma torniamo alle ricerca delle tracce lasciate dai loro progenitori.Siamo alla cattedrale. Oggi, per visitarla, non si passa per la porta principale posta alla sommità della famosa e scenografica scalinata, ma bisogna passare attraverso il chiostro del Paradiso. Dalla lettura dei depliant illustrativi scopriamo che in antico era proprio questo l’accesso principale. Ebbene, non c’è niente di più islamico di questo chiostro. La pianta quadrata, il pozzo centrale, i suoi archi intrecciati, il colore bianco (ma fosse stato mosaicato, come quello di Monreale, non sarebbe stato da meno), tutta la sua estetica ricorda le architetture dell’Islam (una per tutte, il Patio de los Naranjas, il cortile degli aranci, che introduce alla sala di preghiera della moschea di Cordova).Ma anche l’aura spirituale che lo caratterizza è squisitamente islamica. Il silenzio e l’atmosfera magica ed ovattata che fa da preludio alla sala di preghiera, predispone l’animo a distaccarsi dalle frenesie del mondo di fuori e a trovare la concentrazione adatta per rivolgersi al Signore Onnipotente, Dio dei cristiani, dei musulmani e di tutte le creature (che è poi il senso che bisogna dare al nostro dirci monoteisti!).Passando dal chiostro si accede alla basilica antica, a due navate, e da questa a quella medievale, che ne conta tre. In tempi antichi, queste due basiliche erano unite e la chiesa, con il chiostro che la precedeva e le sue cinque navate, “sembrava - e non siamo noi a dirlo, ma le antiche cronache - più una moschea saracina che una chiesa pe’ li cristiani”. Forse anche questo indusse un bel giorno a separare con un muro le due basiliche e a spostare l’entrata principale sulla gradinata che si andò a realizzare, lasciando isolato il chiostro. Nella cattedrale – non lo sapevamo – c’era la tomba dell’apostolo Andrea, apostolo di Gesù (pace su di lui) e fratello di Pietro. Ci siamo ricordati dei versetti del Corano in cui Gesù dice: “Chi mi sosterrà sulla via di Allah?” A questo appello risposero prontamente i suoi apostoli, quindi anche Andrea: “Noi ti sosterremo sulla via di Allah e tu testifica che noi ti rendiamo testimonianza”. Sicuramente Andrea recitò la sua professione di fede: “Io testimonio che non c’è altra divinità che Allah e che Gesù è il suo servo ed Inviato!” Era un musulmano del suo tempo e per questo gli abbiamo reso omaggio, sulla sua tomba, con una Fatiha, la recitazione della prima sura del Corano.Usciamo dalla cattedrale. Il suo campanile, di schietto stile arabo-siculo, è praticamente gemello con quello di Melfi, salvo che quest’ultimo risulta rovinato nell’insieme da una cuspide terminale rifatta, insipida e completamente fuori luogo. Fuori della cattedrale, mentre percorro la via principale del paese, annoiato dai soliti negozietti di souvenir che invece tanto piacciono a mia moglie, la mia attenzione viene attirata da una targa in ceramica che reca la scritta: “Bagno arabo"In realtà è un negozietto di chincaglierie formato da due piccoli ambienti di cui uno sormontato da una cupoletta a conchiglia. Non è molto, ma è una importante traccia di una presenza stanziale di musulmani. Ci siamo ricordati che Amalfi, Napoli, Salerno, secondo il momento, stringevano e rompevano alleanze con i Saraceni di Sicilia, e che quelli che a leggere i libri di storia sembrano solo piccoli intervalli di tempo, in realtà, nella vita vissuta dai protagonisti del tempo, dovevano essere abbastanza lunghi da pensare a dotarsi di comodità stabili come fondachi, moschee e bagni pubblici. Abbiamo scoperto che anche Scala e Pontone, due paesini dell’immediato entroterra amalfitano, vantano la presenza di bagni arabi tra le loro emergenze storiche e architettoniche. Non siamo però riuscita a visitarli.Ma ... e le moschee? Quasi alla fine del corso c’è il muro di un cortile, che presenta lo stesso motivo ad archi intrecciati (ora murati) del chiostro del Paradiso. La nostra irrefrenabile fantasia ci porta ad immaginare che quello fosse il muro della esterno della moschea, un muro uguale a quello del chiostro della cattedrale! E’ solo una fantasia, ma siamo sicuri che, se la moschea non era lì, non doveva essere molto lontana.Ma come sarà stata questa moschea? Man mano che l’ambiente che ci avvolge ci penetra con la sua magia, l’immagine di questa moschea perduta si forma nella nostra mente come un puzzle. I tasselli ci vengono forniti un po’ per volta da quel che vediamo. Finora abbiamo tre tasselli: il cortile, simile al chiostro del Paradiso e di cui questo muro ne è forse un brandello; il rivestimento, in mattonelle di ceramica, come ce ne sono tantissimi in tutto il paese; la cupola, come quella del bagno arabo di poco fa.Il tassello più importante lo troveremo più avanti, a Ravello.


Ravello ovvero "Avevamo l’Alhambra e non lo sapevamo!!"


Dopo il meritato riposo nel nostro buen ritiro, dalla cui verandina si gode (mai verbo fu più appropriato) della vista del mare e del borgo di Praiano, che ci sembra Sidi Bou Said teletrasportato in Costiera, il mattino seguente si va a Ravello.Già nella sua etimologia (Ravellum, rebellum) questo piccolo borgo indica una ribellione, la ribellione all’ovvio e al banale. La storia ci narra che gli amalfitani, forti dei proventi dei loro commerci, si costituirono in repubblica marinara indipendente dalla corona normanna. Ma una parte dei suoi cittadini si “ribellarono” a questa sete d’indipendenza in nome del neg-ozio e le preferirono la fedeltà ai re normanni – che, ricordiamolo, costituirono il primo stato unitario d’Europa, ben prima della stessa monarchia inglese – e l’ozio. Si esiliarono infatti lontano da quel mare che così tanti commerci consentiva e si ritirarono su queste aspre montagne da dove il mare lo vedevano soltanto e dove l’ambiente unico circostante invitava non allo scontato neg-ozio, ma al più ricercato ozio. Furono dunque dei ribelli alla ricerca di uno stile di vita, degli sradicati accomunati dall’amore della bellezza e dell’ozio creativo, ribelli, oseremmo dire, proiettandoci nel presente, alla volgarità moderna.Quando, intorno al 1280, il nobile Matteo Rufolo diede inizio alla edificazione della villa che porta ancora oggi il suo nome, non dovette avere uno spirito meno ribelle dei suoi padri. E’ opportuno ricordare, infatti, che pochi anni prima, nel 1266, Manfredi, il legittimo Re di Sicilia (che comprendeva anche l’Ausonia), “biondo, bello e di gentile aspetto” come lo descrisse Dante, era morto da eroe affrontando a Benevento le truppe mercenarie dell’Angiò, chiamate dal Papa per una vera e propria crociata contro noi siciliani (ed ausoni) che avevamo l’ardire di spalleggiare il nostro Re nella sua politica d’opposizione ai privilegi ecclesiastici e favorevole al dialogo intermediterraneo, temi attualissimi ancor oggi e che ancora provocano forti odii nonchè tensioni interne ed internazionali.Il Sultano di Lucera! Così era chiamato Re Manfredi dai suoi nemici, in chiave ovviamente dispregiativa, e così lo chiameremo noi, con orgoglio e apprezzamento.Ebbene, quando la ribellione non può esprimersi politicamente in quanto i governanti lo impediscono – è il caso dell’Angiò – trova allora nella cultura un ambito più sottile, ma non meno potente per esprimersi. Forse il buon Matteo Rufolo – anche questa è una nostra fantasia, o al massimo una ipotesi – volle commissionare la costruzione a qualcuno dotato di spirito e cultura islamica o islameggiante, in modo da esprimere con questa villa la sua solidarietà e il rimpianto per Manfredi, il Sultano di Lucera, il Re Martire. E quale miglior dichiarazione d’affetto e solidarietà se non l’edificazione di un complesso che evocasse quella luminosa civiltà islamica in opposizione alle tenebre calate sull’Ausonia dopo l’avvento dell’Angiò? Tutto a Villa Rufolo parla d’Islam, d’Islam europeo, di quell’Islam che a quell’epoca non era affatto un corpo estraneo, ma aveva intriso di sé l’intero Mediterraneo, l’Andalusia e la Sicilia in particolare.E’ una Alhambra fiorita, villa Rufolo. Lo storico salernitano Paolo Peduto l’ha definita un palazzo-giardino islamico. Già l’androne della torre d’ingresso possiede una volta a conchiglia in schietto stile arabo siculo, simile a quella del bagno arabo visto giù ad Amalfi. Ma è nel chiostrino quadrato che si raggiunge il massimo dell’evocazione dell’Islam nonchè della casata sveva. E’ un cortiletto quadrato e porticato sia al piano terreno che al primo piano. Ma i grandi archi ogivali del piano terra sono coronati dai leggiadri archetti intrecciati del primo piano. In questo chiostrino si fondono il vicino Chiostro del Paradiso di Amalfi, i cortili delle madrase di Fes, i patios andalusi, ma anche un cortile che a noi dauni sarebbe familiare se non fosse andato perduto. I muraglioni costruiti successivamente per sostenere la costruzione, evidentemente pericolante, ne nascondono un po’ la struttura, ma il nostro occhio la riconosce immediatamente. Quante volte abbiamo visitato il Palazzo di Federico II a Lucera nel continuo tentativo di farcene un’immagine almeno nella nostra mente! Si, seppur nella diversità dei particolari, il chiostrino di Villa Rufolo è praticamente uguale a quello che doveva essere il cortile del Palazzo di Lucera.E Lucera, Luceria Saracenorum, era la città simbolo della politica di Federico prima e di Manfredi poi, con il loro Palazzo posto al centro di una città popolata da sessantamila musulmani! Anche per questo Villa Rufolo è un palazzo-giardino islamico, perchè con l’Islam ne condivide gli ideali, i riferimenti, i personaggi e quant’altro ancora. Nè con questo il Rufolo volle mettere in dubbio la sua appartenenza alla Cristianità, tanto da commissionare importanti opere d’arte nella locale Cattedrale. Ausonia era una società multiculturale, come lo sono tutte le società islamiche, a dispetto delle fobiche società occidentali dove il diverso ha fatto e fa sempre paura.Ma a parte il patio “islameggiante” e la torre arabo-sicula dell’ingresso, è tutta la villa ad avere un impianto islamico, nella sua connotazione di giardino incantato. Giardini e padiglioni, pieni e vuoti, spazi esterni e spazi interni si alternano e si intersecano in una mirabolante arabesco che stordisce tanta ne è la bellezza. Infine non si sa più se ci si trova in un palazzo, in un giardino o in una passeggiata all’aperto a gustarsi uno dei panorami più belli del mondo.Se questa villa anziché da un nobile fosse stata edificata da un Re, oggi non staremmo a parlare di una villa, ma di un Palazzo Reale. Il fatto di chiamarla “villa” trae in inganno e la sminuisce. Una tale meraviglia meriterebbe un nome più altisonante che ne accentuasse la simbolicità ed unicità. Se l’Alhambra fosse giunta a noi con il nome, chessò, di “Villa Boabdil” avrebbe perso una parte consistente del suo fascino. E’ già il nome di “Alhambra”, la (fortezza) Rossa, che affascina, donandogli un aura di nobiltà che è tutto dire. La Zisa di Palermo, per esempio, ha questa fortuna: “al-Azizah” la Splendida, la magnifica residenza dei Re Normanni. Bisognerebbe lanciare un concorso di idee per dare un nuovo nome a Villa Rufolo, anche se l’assonanza di “Rufolo” con Zefiro lascia presagire e gustare la brezza profumata che l’accarezza, sotto l’abbraccio del sole del Mediterraneo.Villa Cimbrone, seppur bellissima, dal punto di vista della ricerca delle tracce islamiche in Costiera, non ha la stessa attrattiva di Villa Rufolo. Tuttavia è qui che troviamo il tassello mancante al puzzle della moschea. Ci eravamo chiesti in precedenza come sarebbe potuta essere una moschea amalfitana dell’anno 1000. Sicuramente rivestita di ceramica, sicuramente con un cortile circondato da archi intrecciati, sicuramente con una cupola a conchiglia. Ma quale doveva essere il suo impianto spaziale? Ebbene, a Villa Cimbrone c’è la risposta: un padiglione con i quattro angoli e altri dettagli rivestiti in ceramica dei colori classici della costiera. Un padiglione dove gli spazi interni e quelli esterni, grazie ai soliti archetti, si intersecano come a Villa Rufolo, un padiglione coperto, ma non chiuso, uno spazio aperto, ma non scoperto. L’ideale per quando fa caldo e quanto basta per i pochi giorni piovosi e freddi. Chi ha visitato la Spagna ricorderà la piccola moschea di Bab el-Mardum a Toledo, oggi chiamata il Cristo della Luz poiché trasformata in chiesa dopo la Reconquista: una piccolo boschetto di colonne aperto sull’esterno, dove il sole e l’ombra si rincorrevano, senza alcun filtro, tra le arcate. Un gioiello! E tale doveva essere, o potrebbe essere, una moschea amalfitana o ravellese. “Girando per le strette vie di Ravello si ha un anticipo di Palermo, giacché questa cittadina, di stile arabo normanno e orientalizzante, è una Palermo in miniatura al riparo dei monti”. (Guido Piovene) E in questa Ravello quasi islamica ci lavorava un nostro illustre concittadino, il figlio di quel Bartolomeo da Foggia che scolpì l’arco del Palazzo imperiale di Foggia. Era Nicola di Bartolomeo da Foggia, autore del pulpito della Cattedrale ravellese, e che in seguito - precursore purtroppo di tanti foggiani – dovette andar fuori dalla sua città e dai confini di Ausonia, che moriva sotto il tallone dell’Angiò, per trovare lavoro e gloria in quel di Pisa dove raggiunse la maturità artistica e la fama con il nome di Nicola (detto il) Pisano.

Positano


Della splendida Positano, dalle sue bianche case mediterranee, le cui finestre e verande occhieggiano all’azzurrissimo mare, in un rigoglio incantato di vegetazione, vogliamo solo raccontare della mostra che abbiamo avuto fortuna di trovare nel Duomo. Qui alcuni soggetti religiosi tipicamente cattolici erano stati illustrati dalla pittrice con rappresentazioni, per così dire, islamiche. Valga x tutti questa Addolorata.
Conclusione
In realtà – è quello che stiamo pian piano scoprendo – la presenza islamica in Italia non c’è stata soltanto in Sicilia o al massimo nella Lucera Saracena. Tutta l’Ausonia ha avuto l’onore e l’onere di questa presenza, dove per pochi, dove per lunghi anni, anni che comunque hanno lasciato la loro influenza e hanno determinato, nel bene e nel male, il modo di essere degli abitanti.Mattinata, Bari, Taranto, Lagopesole, Benevento, Girifalco, Torre di Bugiafro, Squillace, Amantea, la Saracina (il territorio che va da Portici a Torre del Greco), Reggio, Le Castella, Pietrapertosa, Tricarico, ... Foggia e chissà quanti altri paesi ancora.Avremo modo, a Dio piacendo, di parlarne.