sabato 24 aprile 2010


Ha cenato al Ristorante in Fiera, ha dormito a Palazzo Sant´Elena, ha passato il pomeriggio fra il Lanza e la Taverna del Gufo: Ildefonso Falcones, avvocato di Barcellona, uno dei più famosi scrittori del mondo ('La cattedrale del mare´ ha venduto quattro milioni di copie) é stato ospite di Foggia la scorsa settimana.
Falcones é venuto a presentare il suo secondo romanzo, 'La mano di Fatima´ (Longanesi). Un affresco storico sul mosaico di razze e di fedi della Spagna del XVI secolo. Un romanzo storico che narra della cacciata dei musulmani dalla Spagna da parte dei re cristiani e delle autorità cattoliche nel 1568. Un racconto duro e affascinante che punta i riflettori sulle vessazioni e le violenze subite da un popolo, quello dei moriscos, di cui poco si conosce.
Tra i rivoltosi musulmani stanchi di ingiustizie e umiliazioni, spicca il personaggio di Hernando, il ragazzo che si batterà per la sua gente affrontando la guerra, l´amore, eterne passioni, vendette e avventure, conducendo il lettore in un emozionante viaggio nel tempo.
Spagna, 1568. L´Alpujarra é una porzione di terra andalusa, montuosa, che racchiude le province di Granada e di Almeria ed è popolata da una folta colonia di musulmani da tempo costretti alla conversione al cattolicesimo da parte della Corona degli Asburgo. I moriscos (così li chiamavano) sono un popolo fiero, legato alla propria identità, che inevitabilmente passa per il loro credo religioso: sono pronti a dare battaglia contro i cristiani e ad evitare così una sottomissione sempre più invasiva e radicale.
È in questo periodo che Ildefonso Falcones ha ambientato il suo secondo romanzo. L´autore non abbandona la trattazione storica, ripercorrendo nelle sua fluviale narrativa la tragedia dei moriscos che stimola la riflessione sull´intolleranza e il fanatismo di cristiani e musulmani che, pur nelle differenze di fede religiosa, diventano sorprendentemente simili quando, negli altalenanti esiti della storia, assurgono al ruolo ora di vincitore, ora di vinto.
La narrazione degli eventi della Cordova del XVI secolo, peró, non fa che da sfondo, da scenario accattivante al fiume narrativo della vicenda. Come per la piú classica delle fiction di ambientazione storica, infatti, il romanzo dello spagnolo stacca dal fondo della veridicità storica la vicenda del giovane Hernando e la pone al centro della narrazione, in un crescendo di avvenimenti filtrati dal racconto, mai noioso, della vita di un uomo che fa i conti con le eterne passioni di odio, amore, speranza e disillusione, continuando a lottare per il proprio destino e per quello del suo popolo.Un romanzo storico modello Promessi Sposi, pertanto, aggiornato ai tempi della telenovela storica, ritagliato su una vicenda che ha tutti gli ingredienti del triangolo amoroso complicato da intrighi, tradimenti e amori contrastati, in cui la storia come istoria, indagine e ricerca di fatti, recupera il suo significato primigenio di visione, rappresentazione di fatti narrati perché visti.
Così, la lettera che l´ambasciatore spagnolo a Parigi indirizza al re Filippo II per riferire circa le continue proteste delle donne musulmane costrette a subire violenze e soprusi di ogni genere dal parroco cristiano del villaggio, non é che il pretesto storico da cui l´autore prende le mosse per raccontare la storia letteraria della vita di Hernando, stigmatizzato da quegli occhi azzurri che ne testimoniano l´imbarazzante senso di ambiguità da cui per tutta la vita tenterà di emanciparsi. In questo tempo di “preparazione” alla pulizia etnica della Padania alla quale assistiamo in bilico tra indifferenza e sgomento, siamo di fronte ad una opportunità per le Due Sicilie: portare quell’energia, quell’iniziativa, quella vitalità “morisca” che la Padania stolta rifiuta, qui nelle Due Sicilie, quale contributo “storico” alla sua rinascita!
E Allah, che tiene fra due dita il destino dell’uomo e dell’umanità intera, ne sa di più.

domenica 13 dicembre 2009

La rottura del tempo, le Due Sicilie, l'Islam



La rottura del tempo, le Due Sicilie, l’Islam

(Nell'immagine il corpo del "brigante" Ninco Nanco subito dopo essere stato ucciso)

Nel 1860, l’anno della nostra “catastrofe”, stavano venendo al pettine nodi ideologici da tempo irrisolti. Vi fu un confronto tragico tra la modernità da una parte, incarnata nell’ideologia borghese, illuminista e razionalista, e dall’altra lo spirito della Tradizione. Questo confronto era giunto a scadenza storica. La vicenda paradigmatica del soldato napoletano e dell’antico regno delle Due Sicilie è appunto la tragica conclusione di un epoca in cui si verifica una “rottura del tempo”, una irreparabile collisione tra flussi temporali contrapposti: il tempo immobile dei valori (tempo della tradizione) proveniente dal passato, e il tempo concreto e impetuoso del senso della storia (tempo della modernizzazione), lanciato verso il futuro.Insomma, da una parte i valori pre-borghesi, la comunità, l’appartenenza, lo stato organico, la pietà cosmica, il solidarismo interclassisata, e dall’altro le devastanti aspirazioni economiche, la trasvalutazione di tutti i valori in valori di borsa, e i processi di razionalizzazione e di scristianizzazione. Oggi, a cose fatte, è possibile cogliere le contraddizioni, i limiti e le menzogne della modernità e della sua ideologia contro cui si batterono il soldato e il popolo napoletano, in disperata solitudine ed eroica inattualità. Il soldato napoletano, nonostante la vertiginosa accelerazione della storia, seppe ben testimoniare la sua fedeltà ad una Dinastia e ad un Paese inscindibilmente legati tra loro: “Tra le parecchie migliaia di prigionieri, tramutati nell’Italia superiore, benché tentati con la fame, col freddo in clima per essi rigidissimo, e con ogni genere di privazioni, quasi tutti, all’invito ad arruolarsi nelle milizie di un altro Re, non fecero altra risposta che questa, molto laconica: “Il nostro Re sta a Gaeta!”Ma fu un sacrificio inutile. La “rottura del tempo”, annunciatasi con la rivoluzione francese, proseguita con l’avventura napoleonica, stabilizzatasi con la rivoluzione industriale e borghese inglese, maturatasi con il colonialismo britannico, arrivò a compimento, purtroppo per noi, con la caduta del nostro Regno delle Due Sicilie. Questo Regno era un anacronismo che risultava come fumo negli occhi ai profeti del “tempo nuovo”. Il suo Re era amato dal suo popolo, verso cui agì come un padre protettivo, difendendolo dagli appetiti liberali e neo-borghesi. Il nostro Regno, legato ai buoni valori tradizionali, Dio, Patria, Famiglia, risultava troppo desueto per chi conosceva solo i valori di borsa, nefasta anticipazione dei tempi moderni, dei tempi attuali, della loro dilagante immoralità, della corruzione, del premio ai corrotti e della punizione degli onesti e dei leali. Contro questa dinastia e questo popolo si scatenò inevitabile la propaganda dell’epoca, che allora come oggi, aveva bisogno di demonizzare il nemico per poterlo aggredire impunemente. L’Inghilterra, nella persona di Lord Gladstone, definì il Regno dei Borbone “la negazione di Dio” sulla base di mai avvenute visite del Lord alle carceri napoletane. Sul nostro popolo si piansero lacrime ipocrite perché – si diceva – era oppresso, schiavizzato, bisognoso di libertà. Ma quando il Piemonte, braccio armato della Massoneria e degli interessi inglesi, ci conquistò, ci succhiò il sangue e l’anima definendoci “beduini affricani” nessuno protestò, nessuno pianse più. Tutti si voltarono dall’altra parte per non vedere il nostro martirio. Ed eccoci qui… i “meridionali” di oggi, povera e btragica parodia di quello che fu un popolo!Oggi, quelle nefaste idee che portarono alla distruzione della nostra Nazione, si sono perfezionate e si sono date una veste ideologica scientifica. L´Occidente del liberismo totalitario, erede di quell’Inghilterra e di quel Piemonte, è basato su una assunto fondamentale: che tutti gli uomini hanno uno scopo vero ed uno soltanto: l´auto-direzione razionale, per cui i fini di tutti devono necessariamente armonizzarsi in un unico modello universale, il globalismo liberista, lo stile di vita americano esteso al mondo intero. Il problema è che questo «modello universale» non è accettato supinamente da tutti. E da questa non accettazione che nasce il conflitto, ormai universale, tra la ragione e ciò che – secondo i “razionali” - è irrazionale, o non sufficientemente razionale, ovvero gli atteggiamenti immaturi e non sviluppati della vita, sia negli individui che nelle comunità. Qui sta il sunto della ideologia dell´Occidente estremo, il suo «pacifismo», tolleranza e relativismo che si trasforma in bellicismo universale per diffondere la democrazia, parola grossa dietro la quale si nasconde in realtà l’intento di imporre l´omologazione secolarizzata agli individui ed alle masse. Infatti, quando tutti gli uomini saranno fatti divenire razionali, anche con le bombe, se necessario, obbediranno alle leggi razionali, uguali per tutti, e saranno così pienamente rispettosi della legge e insieme, pienamente liberi. E´ evidente che per chi nutre questa visione, il mondo tradizionale è un ostacolo, e quello musulmano in particolare dimostra di poter essere l´ultimo baluardo dell’«irrazionale», il residuale «non maturo» che lungi dal credere nella «auto-direzione razionale», si sente vincolato, sottomesso – è questo il senso del termine «islàm» - alla direzione di un Altro. Ma è evidente ormai, anche per la Chiesa di oggi, che questa visione è contro ogni religione, ogni identità nazionale, linguaggio, pensiero, dedizione non conforme a ciò che il potere dichiara «razionale» e quindi legittimo. Tutti devono essere resi omologhi, desiderare le stesse cose, essere consumatori di un unico mercato mondiale. Ecco perché oggi, l´estremo Occidente si mobilita contro l´Islam, che rappresenta l´irriducibile «irrazionale».Oggi i musulmani, come i “briganti” delle Due Sicilie, che per dieci lunghi anni hanno dato filo da torcere all’intero esercito piemontese, difendono il suolo patrio e la loro religione minacciati dall’ideologia e dalle armi più sofisticate dell’Occidente estremo; e come i “briganti” sono gli aggrediti, ma vengono descritti come gli aggressori, come i “briganti” vengono accusati di tutto un campionario di nefandezze, alcune scandalosamente false, altre appoggiate a mezze verità che in tempi normali sarebbero tranquillamente spiegate e capite. Come Gladstone, i media al servizio dell’ideologia imperante inventano e spacciano per vero; si aggrappano a episodi per amplificarli ed estenderli alla regola generale.Accusano i musulmani di voler piegare il mondo alla loro religione distorcendo un’affermazione di un imam che la si trova pari pari nel Vangelo, sulla bocca del sacerdote Gamaliele. Incolpano lo stesso Islam della "guerra mediatica" che gli si è scatenata contro. E’ colpa dell’Islam che osa difendersi e non di chi, invece, aggredisce senza motivo, invade, bombarda e distrugge in nome della democrazia. Guai, come per i nostri “briganti”, a difendersi. Colpa doppia: rifiuto di civilizzazione e oltraggio ai civilizzatori.Allora, il fatto di appartenere a quel popolo che ha espresso, già un secolo e mezzo fa, i suoi “mujahiddin”, dispregiativamente chiamati “briganti”, che per dieci lunghi anni hanno combattuto la giusta guerra per difendere il suolo patrio e la religione minacciati dall’ideologia e dalle baionette “liberali” e massoniche, quel popolo che ha dato vita ad una insorgenza popolare, come quella guidata dal cardinale Ruffo, tanto splendida ed eroica da essere ancor oggi sottaciuta e nascosta, disprezzata e demonizzata, per impedire alla sua immensa luce di illuminarci, non può che renderci orgogliosi della nostra “duosicilianità”, cosa che per molti di noi, fino a poco tempo fa, quando la nostra coscienza identitaria era “solo” quella di un “italiano”, era del tutto sconosciuta.

(L'articolo contiene ampi brani liberamente tratti dal libro “I lager dei savoia”, di Fulvio Izzo. Sottotitolo: “Storia infame del risorgimento nei campi di concentramento per meridionali”, Edizioni Controcorrente. Contiene inoltre ampi brani altrettanto liberamente tratti da discorsi di Isaiah Berlin).

venerdì 4 dicembre 2009



A proposito del referendum sui minareti e sulle moschee

Oggi ho voglia di sognare o forse di delirare! Sogno (o deliro?) di rivolgermi a quegli immigrati in Padania sempre più in difficoltà a vivere in quelle terre inospitali per clima e società.

Venite da noi, voi umili, scacciati ed offesi, venite nelle Due Sicilie! Molti di voi, venendo in Italia, sono arrivati direttamente in Padania, attirati dalla maggior prosperità di quelle terre. Ed oggi credono che l’Italia sia tutta come la Padania, magari meno ricca, ma comunque Padania.No, non è così!

Le Due Sicilie sono ben diverse dalla grigia e volgare Padania (almeno spero). Questa è una terra che nei secoli è stata più di una volta martoriata ed offesa, ed oggi, da 150 anni, vive schiacciata sotto il tallone di “sciur Brambilla”. Terra umiliata, forse come la vostra, ma non doma.Qui non siamo padani con la puzza sotto il naso e bauscia sempre pronti a credere al primo imbonitore che si alza e comincia a predicare odio. Qui siamo nella terra della dolcezza, del sole, del buon vivere, nell’antica Ausonia, terra del sogno, terra di sogno! Una terra che i barbari del Nord ci hanno sempre invidiato e che periodicamente sono venuti a depredare, approfittando di un popolo che non ama la guerra e a cui interessa soltanto godersi quei 70 – 80 anni che il Signore vorrà concederci di vivere su questo pianeta, a Lui piacendo.

Qui tutti sono stati e sono i benvenuti. Specie ora che la nostra migliore gioventù ci sta abbandonando, vittima di una crisi economica e sociale distruttiva, vittima di un lavaggio del cervello meticoloso che ancora ci far credere d’essere dei poveri incapaci quando siamo a casa nostra e invece capacissimi di emergere in terra straniera, non appena attraversiamo il Tronto o il Garigliano.Senza di voi, giovani marocchini, pakistani, albanesi, ecc. molti nostri borghi, paesi e quartieri cittadini sarebbero spopolati e senza vita, con solo pochi pensionati soli o con badante al seguito, e senza attività economiche vive.Chi ha visto l’evoluzione che ha avuto il quartiere Ferrovia di Foggia (pur con le sue conseguenze negative, non le neghiamo) o la Piazza della Ferrovia di Napoli, capisce cosa dico. Queste realtà oggi sono brulicanti di vita vera, di kebab, di macellerie halal, di ristoranti indiani, di punti telefonici e internet ecc. tanto quanto ieri vedevano solo il misero diseredato napoletano che vendeva calzini, ombrelli o fazzolettini di carta o, a Foggia, il negozietto che sopravviveva senza vedere un rinnovamento almeno da 40 anni. Cari amici e fratelli stranieri e musulmani (perchè è soprattutto con voi che ce l’hanno. Qualcuno l’ha detto: “Non ho niente contro la società multietnica, ma quello che non voglio è una società multiculturale!”), se vi scacciano o vi rendono la vita difficile, lassù in Padania, non andate via, ma venite nelle Due Sicilie. La nostra terra è rifiorita ogni qualvolta sono arrivate energie fresche dal Sud del mondo!

Qui, nelle Due Sicilie, scoprirete di essere di casa. Vostri fratelli nei secoli passati vi hanno preceduto ed hanno lasciato i segni del loro passaggio: moschee, minareti, archi intrecciati, chiostri di Paradiso, nomi di città, paesi, fiumi e montagne, parole, usi e costumi, veli neri, dignità, sangue, visi olivastri. Come cantava Mimmo cavallo “siamo mezzi marocchini, teniamo l’Africa vicina!” E quei vostri fratelli di tanti secoli fa hanno anche versato il loro sangue per difendere quella che era anche la loro patria, queste nostre Due Sicilie. Erano a Cortenuova, con Federico II, a combattere contro i leghisti; erano al fianco di Manfredi, nella tragica giornata di Benevento, quando i baroni del Regno abbandonarono il loro giovane Re; erano a Lucera a combattere contro l’Angioino usurpatore, fino al 1300, quando il resto del Regno si era arreso già da 34 anni; ed erano a Napoli, con il Cardinale Ruffo, nell’indimenticabile apoteosi della marcia sanfedista per la riconquista del Regno.

Dunque questa terra è benedetta anche dal vostro sangue, ed oggi dalla vostra presenza e dal vostro lavoro.Venite dunque, questa è casa vostra. Venite a ricostruire e ad abitare la casa del poeta Ibn Hamdis, che ancora vi aspetta, infestata dai rovi, tra le rovine di Noto vecchia; venite a ridare una boccata di ossigeno, di fiducia, di dignità e di vita ad un popolo stanco, che soffre da 150 anni della spoliazione della propria identità e che è stato diseredato della propria dignità. Siamo fra i diseredati della Terra, ma voi sapete bene cosa dice il Santo Corano: “Un giorno la terra sarà dei diseredati”.

Una sola cosa vi chiedo: noi siamo un popolo che tiene molto alle cose fondamentali, ed una di queste sono le nostre donne. Molte di esse hanno già costruito una famiglia con voi, apprezzando la vostra umanità e la vostra gentilezza. Abbiate sempre buone intenzioni, ma se ve ne vengono di cattive, lasciatele stare, altrimenti reagiamo male. Fate questo e siederete onorati alla nostra tavola e condividerete con noi, insieme al cibo, le gioie, i dolori e le speranze.
Pace a voi, salam ‘aleykum.
Mustafa

sabato 4 luglio 2009

Alì e l'elefante


Alì era un catanese, un catanese del 1200. Suo padre Fathi gli aveva lasciato due eredità molto ingombranti: la prima era quel nome, Alì, che immediatamente lo individuava come siciliano di origine araba e di religione musulmana. Ciò gli comportava molti problemi con i suoi concittadini, ma Alì sopportava tutto con pazienza anche perchè egli era orgoglioso di essere catanese almeno quanto di essere di origine araba e musulmano. La seconda “ingombrante eredità” lasciatagli da suo padre era stata niente di meno che un elefante. Il pachiderma, arrivato in Sicilia dall’Africa come “trattore” per dissodare il campicello di famiglia, era sopravissuto a Fathi ed era pervenuto in eredità ad Alì alla morte del padre.
Quando Federico II represse le ultime scintille della rivolta musulmana a Entella e Gaito ed esiliò tutti i musulmani di Sicilia a Lucera di Capitanata, Alì dovette lasciare la sua casa nella campagna catanese e, seguendo le sorti dei suoi correligionari, trovò rifugio e nuova vita all’ombra del palazzo imperiale lucerino, entrando a far parte della guarnigione militare saracena insieme all’elefante, cui era stato dato il nome di “Alfio”, storpiatura dell’arabo “Al-fil”, che vuol dire semplicemente “l’elefante”.
Quando nel 1237 Federico II organizzò una spedizione in Padania per ridurre all’obbedienza i comuni leghisti ribelli, ad Alì venne ordinato di unirsi alla spedizione e di condurre con sè Alfio, l’elefante, con il compito di guidarlo attraverso le fila nemiche per gettarvi scompiglio e terrore. E così Alì partì, insieme ad altri 10.000 saraceni, a rinforzare l’esercito imperiale, a ulteriore riprova di come i musulmani duosiciliani siano sempre stati in prima fila ogni qualvolta s'è trattato di versare il proprio sangue per la nostra patria.
E dopo alterne vicende arrivò il giorno di Cortenuova. Presso questa località padana l’esercito imperiale affrontò quello della Lega, in tutto si scontrarono 35.000 soldati. L'esercito imperiale, fingendo di ritirarsi per l’inverno verso l'alleata Cremona, si portò invece sul più favorevole territorio di Cortenuova organizzando un’imboscata alla coalizione milanese-bresciana, indotta dalla finta mossa federiciana, a ritirarsi dal campo di battaglia.
I saraceni e i bergamaschi attaccarono l’esercito leghista a diverse ondate inducendolo ad affrettare la ritirata. Al calare della notte, Federico ordinò ai suoi uomini di dormire con l'armatura addosso, poiché l’indomani, alle prime luci dell'alba, avrebbero dovuto sferrare l’attacco decisivo. Infatti, il Podestà di Milano aveva deciso di ritirarsi sfruttando il buio della notte. Ma il terreno, reso molle e fangoso dalle piogge di novembre, rallentava molto la ritirata e così fu ordinato di abbandonare il Carroccio a Cortenuova insieme a tutti i bagagli ingombranti e pesanti. A malincuore i soldati avevano obbedito abbandonando il Carroccio, proprio emblema di guerra, spogliato però di ogni stendardo e vessillo.
All'alba del 27 novembre Federico ordinò alla cavalleria di lanciarsi all'inseguimento dell'esercito leghista in rotta. Il vero massacro e il conseguente annientamento dell'esercito della Lega si perpetrò proprio in quel momento. I bergamaschi massacrarono selvaggiamente milanesi e bresciani che cercavano di lasciare frettolosamente il campo di battaglia senza più nemmeno combattere. Chi riusciva a scappare dalla violenza degli orobici, si gettava nel fiume Oglio in piena, dove annegava senza scampo. Alla fine del massacro, si contarono circa 10.000 morti per l'esercito della Lega Lombarda, e moltissimi prigionieri. Tra di essi anche 300 nobili di Milano, Alessandria, Torino e Vercelli, lo stesso podestà di Milano, nonché Pietro Tiepolo, figlio del doge di Venezia. Federico II, dopo la schiacciante vittoria, fece un ingresso trionfale nella città alleata di Cremona, portando come trofeo il Carroccio, trainato da un elefante, il nostro Alfio, che recava lo stendardo imperiale. Sul Carroccio era legato il Podestà di Milano con un cappio al collo. Il suo destino era ormai segnato; oltre alla pesante umiliazione subita, Federico II lo rinchiuse in diverse prigioni della Puglia, ed alla fine, decise di metterlo al patibolo. Il Carroccio venne inviato con una missiva al Pontefice a Roma.A guerra terminata. Alì, per i servigi resi, ottenne, in deroga al decreto di esilio, di poter tornare nella nativa Catania con un buon vitalizio e con l’obbligo di prendersi cura di Alfio l’elefante vita natural durante, cosa che Alì fece molto volentieri in quanto Alfio era per lui più di un parente stretto. Alì si stabili in una casetta sul mare presso il castello Ursino e tutti i giorni portava Alfio a passeggio sulla spiaggia. Ben presto l’elefante divenne l’amico di tutti i catanesi, in particolare dei ragazzetti che approfittavano della mansuetudine dell’animale per saltargli in groppa e giocare con la sua proboscide. La gente portava da mangiare al suo beniamino ed al suo padrone e tutti erano felici di condividere un po’ della loro vita e della loro giornata con Alfio, dilettandosi a farsi raccontare da ‘Alì la giornata di Cortenuova, quando Alfio aveva umiliato la Lega! Ed Alì non si sottraeva al racconto, che aveva ormai imparato a memoria attrezzandosi addirittura con cartelloni dipinti a vivaci colori che riportavano le scene salienti di quella esaltante giornata. Ma il tempo passa per tutti, ed un bel giorno Alfio venne trovato morto nella sua stalla sulla spiaggia. Aveva vissuto quasi 120 anni ed era ormai stanco della vita. Fu seppellito con tutti gli onori in una tomba che rimase sulla spiaggia per tanto tempo, fino a quando nel 1600 la lava dell’Etna la coprì per sempre. Ma alcuni di quei ragazzi, ormai uomini, che avevano giocato e fraternizzato con Alfio vollero che fosse ricordato per sempre. Si ricordarono che nei sotterranei dell’anfiteatro romano c’era la statua di un elefante che risaliva - si diceva - agli antichi Romani. La statua fu recuperata, ripulita, sistemata e fu quindi collocata nella piazza principale della città, davanti al duomo di Sant’Agata. Con quel monumento la città non si sarebbe più dimenticata di Alfio che diventò da allora il simbolo stesso di Catania, simbolo di forza, di onore e ... di vittoria sulla Lega, nonchè augurio di un pronto riscatto per le nostre Due Sicilie!

lunedì 29 dicembre 2008

Giawhar as.Siqilli, grande generale, shiita e siciliano



Giawhar as-Siqilli, grande generale, shiita e siciliano.
Egypt Air ha annunciato di voler stabilire un collegamento aereo tra Il Cairo e Catania, in seguito anche ai recenti accordi culturali tra le due nazioni ed alla inaugurazione nella capitale egiziana di una strada ed un parco intitolati alla Sicilia. I legami tra l'Egitto e la Sicilia vanno indietro di millenni, sin da quando l'impero Siracusano di Dionigi si estendeva su di un'ampia parte del Mediterraneo sino all'alto Adriatico. Dalla gigantesca nave costruita da Archimede e da Ierone donata a Tolomeo d'Egitto, una delle meraviglie tecnologiche della storia della civiltá umana, alla legenda del cuoco catanese di Cleopatra, sino alla fondazione del Cairo da parte dell'ammiraglio siciliano Giawhar El Siqilli . Un grazie da parte di tutti i duosiciliani a tutti coloro i quali sono stati capaci di ravvivare, in ambito sia politico che culturale, questi legami storici tra due delle nazioni e delle civiltá piú antiche del Mediterraneo dopo un lungo periodo di forzato isolamento reciproco.Vogliamo riprendere il tema del legame tra la Sicilia e l'Egitto ricordando le gesta del valoroso Giawhar El Siqilli. Vi riproponiamo un articolo comparso su “L’Isola”, una pubblicazione dell’Associazione L’Altra Sicilia, per ricordarvi come la forza dei duosiciliani non si misura in voti, ma nella capacitá di fornire quell'avanguardia morale di riscoperta e di risveglio delle coscienze dei Siciliani al di lá ed al di qua del faro sulla cui base si costruirá la nostra libertá.




Giawhar El-Siqilli (Sicilia, 911 - Il Cairo, 28 gennaio 992) fu un generale siciliano del Califfato Fatimide. Egli conquistò tutto il nord Africa, l'Egitto e la Siria. Fondò la stessa città di al-Qahirah (Il Cairo) e la grande moschea di al-Azhar, che è anche una delle più antiche università del mondo. Il suo nome completo era Abu al-Hasan Giawhar ibn Abdullah. Non conosciamo niente dei suoi antenati a parte il nome del padre, Abdullah. La ragione di ciò è che Giawhar faceva parte di un gruppo di Mawâli siciliani, ovvero cristiani bizantini convertiti all’Islam per i quali non si usava conservare tracce delle loro origini pre-islamiche. Nel 953, Giawhar viene nominato segretario dell’Emiro al-Mu'izz. Giawhar alla testa dell'esercito fatimide conquistò M'Sila. Tentò poi di penetrare nel Maghreb occidentale. Nel 959 venne nominato visir e comandante in capo dell'esercito. Nello stesso anno intraprese con successo la conquista di numerose province del Maghreb. Stabilì qui la sua residenza da cui governò negli anni successivi. Nel mese di febbraio del 969 Giawhar, che è ormai considerato insostituibile dall'emiro al-Mu'izz, venne incaricato di conquistare l'Egitto. In poco tempo si impossessò della città di Alessandria senza grandi problemi e si diresse verso la città di Al-Fustat che immediatamente si arrese. Immediatamente dopo la vittoria divenne governatore dell'Egitto e si distinse evitando che i propri soldati si dedicassero al saccheggio dando loro grandi ricompense ed onori. Il suo governo fu tollerante, benevolo e positivo. Il giorno stesso della conquista, 6 giugno 969, Giawhar tracciò il progetto di una nuova città e procedette alla fondazione, su un terreno di 136 ha, di al-Qâhirah (l’attuale città del Cairo) e alla costruzione del suo castello (Qasr). Nel 970 iniziò l'edificazione della moschea al-Azhar, centro della propaganda sciita in Egitto. La moschea fu inaugurata due anni dopo. I contingenti dell'esercito furono disposti per accantonamenti, che si trasformarono rapidamente in quartieri. Giawhar fece anche costruire un palazzo per accogliere il califfo. Il 22 giugno del 972 la moschea fu aperta al culto e il 10 giugno 973 tutto era pronto per accogliere il califfo Al-Muizz li-Dîn Allah, che vi trasferì la sua capitale. Nell'anno 970 inviò i suoi uomini alla conquista della Siria, compito che viene portato a termine con successo. Nel 972 i Siriani contrattaccarono, ma Giawhar riuscì a batterli. In tal modo la Siria fu riconquistata in via definitiva. Morì il 28 gennaio 992 a più di 80 anni d’età. Sul lato nord dell'università di al-Azhar può essere visitata quella che viene considerata la sua tomba (anche se la questione è controversa).

venerdì 26 dicembre 2008

Dov'è finito il nostro sangue?



Dov’è finito il nostro sangue?

“Il popolo non ha lavoro, pane, speranza. Nella città di Napoli si assiste giornalmente ad uno spettacolo desolante. Vi giungono carovane di contadini delle Calabrie, della Basilicata, del Cilento che vengono ad imbarcarsi per emigrare. Sono pallidi, disfatti, con l’aspetto della miseria più crudele. Già moltissimi operai, cacciati dagli arsenali e dai cantieri, sono partiti per l’Egitto ove sperano di procurarsi un lavoro e del pane lavorando per la Compagnia dell’istmo di Suez. Dalla Sicilia l’emigrazione per Tunisi, Tripoli e Algeri è all’ordine del giorno. Un gran numero degli abitanti delle province continentali cerca, nel porto di Genova, l’occasione per imbarcarsi verso l’America meridionale. Alcuni, crudelmente delusi, giocoforza si arruolano. Gli abitanti dell’isola di Ustica, in Sicilia, del resto già piuttosto spopolata, stanno per emigrare quasi tutti a Buenos Ayres. Com’è possibile, dunque, che gli abitanti delle Due Sicilie, i meno inclini a lasciare la propria terra, siano ora presi da questo furore dell’emigrazione? Le imposte esose, la mancanza di commerci e di lavoro, il dispotismo del governo, la legge Pica, la legge Crispi ne sono senz’altro le cause”. (P.Calà Ulloa, Lettres d’un Ministre emigrè, Lettera XLIII del novembre 1866, tratta da “I lager dei savoia", di Fulvio Izzo, Ed. Controcorrente).
Nel mio recentissimo Pellegrinaggio alla Mecca, grazie a Dio felicemente portato a termine, ho avuto la ventura di incontrare il giovane ritratto con me nella foto, inglese di origine irakena, che era nel mio stesso gruppo di pellegrini partiti da Londra. Egli, sentendomi dire che ero “siciliano”, mi ha confidato d’essere anch’egli di origine siciliana da parte di madre. Infatti mi ha raccontato di un suo bis-bis-bis nonno materno che, più o meno ai tempi descritti dalla lettera di Calà Ulloa, aveva lasciato la Sicilia verso i paesi arabi. La sua discendenza era poi passata in Turchia e di qui, seguendo i destini delle varie generazioni, in Iraq, per poi finire, attraverso le sofferenze di questo popolo, tanto simile a quelle dei nostri avi duosiciliani, in Inghilterra. Grande è stato l’affetto che si è creato fra noi, l'affetto dovuto al fatto d'avere lo stesso sangue (duosiciliano) e la stessa fede (l'Islam). Sicuramente Dio avrà voluto darci un segno facendoci compiere insieme il pellegrinaggio alla sua Santa Casa.

martedì 28 ottobre 2008

I "picciotti" del Profeta


I "PICCIOTTI" DEL PROFETA

Il passato islamico delle Due Sicilie è un qualcosa che ogni duosiciliano musulmano che abbia un minimo di capacità d’introspezione sente fortissimamente in sé.
Leonardo Sciascia in “Occhio di capra” così s’espresse: “A Racalmuto (Rahal-maut - villaggio morto - per gli arabi: e pare gli abbiano dato questo nome perché lo trovarono desolato da una pestilenza) sono nato sessantaquattro anni addietro; e mai me ne sono distaccato, anche se per periodi più o meno lunghi (lunghi non più di tre mesi) ne sono stato lontano. E così profondamente mi pare di conoscerlo, nelle cose e nelle persone, nel suo passato, nel suo modo di essere, nelle sue violenze e nelle sue rassegnazioni, nei suoi silenzi, da poter dire quello che Borges dice di Buenos Aires: “Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”. Mi pare cioè di sapere del paese molto di più di quel che la mia memoria ha registrato e di quel che dalla memoria altrui mi è stato trasmesso: un che di trasognato, di visionario, di cui non soltanto affiora - in sprazzi, in frammenti - quella che nel luogo fu vita vissuta per quel breve ramo genealogico della mia famiglia che mi è dato conoscere (e tutto finisce, nel risalire il tempo, a un Leonardo Sciascia, nonno di mio nonno, che nei primi dell’Ottocento venne a Racalmuto dal vicino paese di Bompensiere per esercitarvi il mestiere di conciatore di pelli), ma anche tutta la storia del paese dagli arabi in poi. Ed ecco un fatto di per sé borgesiano, del Borges di natura e quotidiano: non riesco ad immaginare, a vedere, a sentire la vita di questo paese prima che gli arabi vi arrivassero e lo nominassero. Ed è piuttosto facile scoprirne la ragione: la mia residenza qui, quella residenza che di molto precede la nascita, è cominciata con gli arabi, dagli arabi. Del resto, c’è il mio nome: che è tra quelli che Michele Amari registra come arabi, e finiscono con l’esser tanti da contraddire la sua tesi di fondo che la Sicilia sia stata araba ma non, per dirla approssimativamente, arabizzata (e il nome, fino alla metà del secolo scorso, nelle anagrafi parrocchiali, non gratuitamente, ma per esigenza fonetica, veniva così trascritto: Xaxa)”.
Bellissimo questo scritto di Sciascia: “Risiedevo qui e poi vi sono nato” tuttavia “non riesco ad immaginare, a vedere, a sentire la vita di questo paese prima che gli arabi vi arrivassero e lo nominassero” perché “la mia residenza qui, quella residenza che di molto precede la nascita, è cominciata con gli arabi, dagli arabi. Del resto, c’è il mio nome tra quelli che Michele Amari registra come arabi”.
Chiarissimo. C’è una sorta di filo sottile, ma continuo della memoria che ci lega pressocchè inconsapevolmente, ma non del tutto, ai nostri avi, sia a quelli più vicini, di cui c’è stato trasmesso direttamente qualcosa, sia quelli più lontani, di cui nulla sappiamo, ma che comunque sono legati a noi.
Non ne ho le prove, ma sono sicuro di discendere da uno di quei musulmani di Sicilia deportato a Lucera da Federico II e che, pur sconfitto, umiliato, venduto schiavo, cristianizzato, è riuscito a trasmettere il seme dell’Islam ai suoi discendenti fino a che, quando la possibilità c’è stata per quel seme di germogliare, esso è germogliato ed io sono tornato all’Islam.
Per questo, di mio, prima ancora di conoscere lo scritto di Sciascia, io che mai avevo scritto poesie, mi uscì di getto quella che è stata finora la mia unica poesia (anche se devo riconoscere che essa mi venne fuori dopo aver letto sul web un verso, uno solo, che ho fatto subito mio perché l’ho riconosciuto come tale; era di un certo Enzo, che forse, come me, sentiva questo filo continuo; ho anche provato a contattarlo, ma senza successo):

“Vivo da 14 secoli,
dall’Arabia alla Persia, da Cordoba a Mazara,
di generazione in generazione discepolo del Profeta,
esiliato, profugo, sempre straniero nella mia terra.

Strappato alla mia Sicilia,
dov’è ancor la mia casa, abitata dai rovi,
divenni straniero in Andalus, nella Granata che io edificai,
e ogni giorno muoio di nostalgia per la mia patria.

Oggi son tornato, oh madre,
dove mi guardavi da fanciullo, settecento anni fa,
giocare a inseguir lucertole, sotto la torre sveva,
mentre dabbasso il grano ondeggiava nel vento caldo del Tavoliere”.


Credo dunque di potermi dire, in piena coscienza e nel mio pieno diritto, in quanto duosiciliano e musulmano, “picciotto del Profeta”!
E’ una gran bella sensazione! Dire “picciotto” è dire d’essere figlio di questa terra meravigliosa, baciata da Dio, accogliente e ammaliante, che ha mutato in figli molti di coloro che vi giunsero come nemici, calando dal Nord o venendo dal mare per attaccarla e sottometterla; che ha integrato coloro che vi sbarcarono per sfuggire ad antiche persecuzioni o a moderne povertà, dandogli terre da coltivare, paesi da abitare, donne (o uomini) da sposare e Re savi da amare e ubbidire.
Qui ci sono paesi dove si parla albanese, greco o idiomi slavi. Altri dove si parla il francese, mentre un po’ tutti noi parliamo un po’ spagnolo. Altri paesi hanno nomi arabi e in essi oggi si torna a parlare arabo, grazie a quell’immigrazione che io definisco “riparatrice”, perché ha permesso il ritorno “ufficiale” degli unici figli cacciati via in nome dell’unità religiosa del paese, concetto che tante sofferenze ha apportato e che spero tramontato per sempre.
La mia storia di “picciotto del Profeta” ebbe inizio il 18 giugno dell'827 sulla costa di Mazara, in Sicilia, e non è mai finita. Ancor oggi, infatti, la più immediata immagine della Sicilia, la sua identità più profonda è quella dell'Islam. La civiltà che i miei padri instaurarono in Sicilia nel nome della religione di Muhammad (pace su di lui e sulla sua famiglia) è impronta ancora viva che, con tutto il suo bagaglio di cultura, di stile, di mentalità, di vita quotidiana perfino, segna il nostro destino. La mia residenza genealogica è dunque in Sicilia, tanto in quella di là dal Faro che in quella al di qua, che pur meno intrisa della prima, ha assaporato e assorbito qua e là questa sicilianità o sicilitudine. Il profilo di questa identità “islamica” è lo stesso in ambedue le Sicilie: è quello dei mercati, dei giardini, delle tavole imbandite, della "frescura”, dell'acqua, della gastronomia, della seduzione, della sterminata produzione poetica, del mistero, della toponomastica, dell'arte, della lingua, delle strade, dei castelli, dei silenzi, della solitudine, dell'assenza dell'odio politico, dei riti popolari, perfino di quelli più fortemente cristiani come la Settima Santa. Come non vedere nelle processioni del Venerdì Santo un eco del lutto di Ashura? E nel pugnale infisso nel petto della nero vestita Madonna Addolorata, il dolore di Fatima Zahra per la morte del suo amato figlio, l’Imam Hosseyn? Per la rude semplicità della città cristiana di un tempo, la Sicilia degli emiri e delle moschee fu quasi una vetrina da ammirare e in cui specchiarsi. Ed ancora oggi, il rude padano non riesce a spiegarsi la perdurante vitalità di un popolo che, da suoi bisnonni percosso e rapinato a morte, riesce ancora a sorridere alla vita e farsi sberleffi delle altrui preoccupazioni “fiscali”. E’ la vitalità islamica, quella stessa che fa sorridere ancora i palestinesi nonostante 60 anni di sofferenze, che fa gioire e sparare in aria gli irakeni ad ogni piccolo successo contro l’invasore, che fa brulicare di vita le città mediorientali anche nelle ore della notte. E’ la nostra inesauribile eredità!

Note

Recentemente è stato realizzato un documentario sulla presenza araba in Sicilia, attraverso i secoli, fino ai giorni nostri. Il suo titolo è appunto “I picciotti del Profeta”. Lo ha girato l’Istituto Luce a Scicli, Mazara, Vittoria e Santa Croce Camerina. La festa delle Milizie, la presenza delle “tannure”, i forni tipici della tradizione araba, e poi l’abbigliamento, i costumi, gli attrezzi di lavoro, i cui nomi in siciliano hanno la stessa pronuncia che in arabo. Autore del documentario è Pietrangelo Buttafuoco, insieme a Maura Cosenza. “Scopo del documentario è quello di offrire visivamente le emozioni, le sensazioni, i profumi, e soprattutto quanto la gente di Sicilia sente dell’Islam”, ha spiegato Maura Cosenza. Il lungometraggio dura cinquanta minuti e parte da ciò che si può vedere nei siti archeologici, nei castelli, nell’unico caravanserraglio che c’è a Sambuca di Sicilia, nei bagni arabi di Cefalà Diana; da lì si snoda un percorso tortuoso, a 360 gradi, alla ricerca delle tradizioni, nella vita di tutti i giorni, nella toponomastica, negli utensili utilizzati in agricoltura, nella cucina. Quindi c’è il tema dell’immigrazione dei tunisini, dei maghrebini, tutte popolazioni islamiche, musulmane, la cui presenza è stata censita solo dal 1990, quando già da una ventina d’anni questi immigrati vivevano a Mazara, a Santa Croce, a Vittoria, a Scicli… “Questi immigrati sentono di essere siciliani, si sentono poco italiani”, spiega Maura Cosenza. Il documentario è distribuito in Dvd dall’Istituto Luce.