domenica 13 dicembre 2009

La rottura del tempo, le Due Sicilie, l'Islam



La rottura del tempo, le Due Sicilie, l’Islam

(Nell'immagine il corpo del "brigante" Ninco Nanco subito dopo essere stato ucciso)

Nel 1860, l’anno della nostra “catastrofe”, stavano venendo al pettine nodi ideologici da tempo irrisolti. Vi fu un confronto tragico tra la modernità da una parte, incarnata nell’ideologia borghese, illuminista e razionalista, e dall’altra lo spirito della Tradizione. Questo confronto era giunto a scadenza storica. La vicenda paradigmatica del soldato napoletano e dell’antico regno delle Due Sicilie è appunto la tragica conclusione di un epoca in cui si verifica una “rottura del tempo”, una irreparabile collisione tra flussi temporali contrapposti: il tempo immobile dei valori (tempo della tradizione) proveniente dal passato, e il tempo concreto e impetuoso del senso della storia (tempo della modernizzazione), lanciato verso il futuro.Insomma, da una parte i valori pre-borghesi, la comunità, l’appartenenza, lo stato organico, la pietà cosmica, il solidarismo interclassisata, e dall’altro le devastanti aspirazioni economiche, la trasvalutazione di tutti i valori in valori di borsa, e i processi di razionalizzazione e di scristianizzazione. Oggi, a cose fatte, è possibile cogliere le contraddizioni, i limiti e le menzogne della modernità e della sua ideologia contro cui si batterono il soldato e il popolo napoletano, in disperata solitudine ed eroica inattualità. Il soldato napoletano, nonostante la vertiginosa accelerazione della storia, seppe ben testimoniare la sua fedeltà ad una Dinastia e ad un Paese inscindibilmente legati tra loro: “Tra le parecchie migliaia di prigionieri, tramutati nell’Italia superiore, benché tentati con la fame, col freddo in clima per essi rigidissimo, e con ogni genere di privazioni, quasi tutti, all’invito ad arruolarsi nelle milizie di un altro Re, non fecero altra risposta che questa, molto laconica: “Il nostro Re sta a Gaeta!”Ma fu un sacrificio inutile. La “rottura del tempo”, annunciatasi con la rivoluzione francese, proseguita con l’avventura napoleonica, stabilizzatasi con la rivoluzione industriale e borghese inglese, maturatasi con il colonialismo britannico, arrivò a compimento, purtroppo per noi, con la caduta del nostro Regno delle Due Sicilie. Questo Regno era un anacronismo che risultava come fumo negli occhi ai profeti del “tempo nuovo”. Il suo Re era amato dal suo popolo, verso cui agì come un padre protettivo, difendendolo dagli appetiti liberali e neo-borghesi. Il nostro Regno, legato ai buoni valori tradizionali, Dio, Patria, Famiglia, risultava troppo desueto per chi conosceva solo i valori di borsa, nefasta anticipazione dei tempi moderni, dei tempi attuali, della loro dilagante immoralità, della corruzione, del premio ai corrotti e della punizione degli onesti e dei leali. Contro questa dinastia e questo popolo si scatenò inevitabile la propaganda dell’epoca, che allora come oggi, aveva bisogno di demonizzare il nemico per poterlo aggredire impunemente. L’Inghilterra, nella persona di Lord Gladstone, definì il Regno dei Borbone “la negazione di Dio” sulla base di mai avvenute visite del Lord alle carceri napoletane. Sul nostro popolo si piansero lacrime ipocrite perché – si diceva – era oppresso, schiavizzato, bisognoso di libertà. Ma quando il Piemonte, braccio armato della Massoneria e degli interessi inglesi, ci conquistò, ci succhiò il sangue e l’anima definendoci “beduini affricani” nessuno protestò, nessuno pianse più. Tutti si voltarono dall’altra parte per non vedere il nostro martirio. Ed eccoci qui… i “meridionali” di oggi, povera e btragica parodia di quello che fu un popolo!Oggi, quelle nefaste idee che portarono alla distruzione della nostra Nazione, si sono perfezionate e si sono date una veste ideologica scientifica. L´Occidente del liberismo totalitario, erede di quell’Inghilterra e di quel Piemonte, è basato su una assunto fondamentale: che tutti gli uomini hanno uno scopo vero ed uno soltanto: l´auto-direzione razionale, per cui i fini di tutti devono necessariamente armonizzarsi in un unico modello universale, il globalismo liberista, lo stile di vita americano esteso al mondo intero. Il problema è che questo «modello universale» non è accettato supinamente da tutti. E da questa non accettazione che nasce il conflitto, ormai universale, tra la ragione e ciò che – secondo i “razionali” - è irrazionale, o non sufficientemente razionale, ovvero gli atteggiamenti immaturi e non sviluppati della vita, sia negli individui che nelle comunità. Qui sta il sunto della ideologia dell´Occidente estremo, il suo «pacifismo», tolleranza e relativismo che si trasforma in bellicismo universale per diffondere la democrazia, parola grossa dietro la quale si nasconde in realtà l’intento di imporre l´omologazione secolarizzata agli individui ed alle masse. Infatti, quando tutti gli uomini saranno fatti divenire razionali, anche con le bombe, se necessario, obbediranno alle leggi razionali, uguali per tutti, e saranno così pienamente rispettosi della legge e insieme, pienamente liberi. E´ evidente che per chi nutre questa visione, il mondo tradizionale è un ostacolo, e quello musulmano in particolare dimostra di poter essere l´ultimo baluardo dell’«irrazionale», il residuale «non maturo» che lungi dal credere nella «auto-direzione razionale», si sente vincolato, sottomesso – è questo il senso del termine «islàm» - alla direzione di un Altro. Ma è evidente ormai, anche per la Chiesa di oggi, che questa visione è contro ogni religione, ogni identità nazionale, linguaggio, pensiero, dedizione non conforme a ciò che il potere dichiara «razionale» e quindi legittimo. Tutti devono essere resi omologhi, desiderare le stesse cose, essere consumatori di un unico mercato mondiale. Ecco perché oggi, l´estremo Occidente si mobilita contro l´Islam, che rappresenta l´irriducibile «irrazionale».Oggi i musulmani, come i “briganti” delle Due Sicilie, che per dieci lunghi anni hanno dato filo da torcere all’intero esercito piemontese, difendono il suolo patrio e la loro religione minacciati dall’ideologia e dalle armi più sofisticate dell’Occidente estremo; e come i “briganti” sono gli aggrediti, ma vengono descritti come gli aggressori, come i “briganti” vengono accusati di tutto un campionario di nefandezze, alcune scandalosamente false, altre appoggiate a mezze verità che in tempi normali sarebbero tranquillamente spiegate e capite. Come Gladstone, i media al servizio dell’ideologia imperante inventano e spacciano per vero; si aggrappano a episodi per amplificarli ed estenderli alla regola generale.Accusano i musulmani di voler piegare il mondo alla loro religione distorcendo un’affermazione di un imam che la si trova pari pari nel Vangelo, sulla bocca del sacerdote Gamaliele. Incolpano lo stesso Islam della "guerra mediatica" che gli si è scatenata contro. E’ colpa dell’Islam che osa difendersi e non di chi, invece, aggredisce senza motivo, invade, bombarda e distrugge in nome della democrazia. Guai, come per i nostri “briganti”, a difendersi. Colpa doppia: rifiuto di civilizzazione e oltraggio ai civilizzatori.Allora, il fatto di appartenere a quel popolo che ha espresso, già un secolo e mezzo fa, i suoi “mujahiddin”, dispregiativamente chiamati “briganti”, che per dieci lunghi anni hanno combattuto la giusta guerra per difendere il suolo patrio e la religione minacciati dall’ideologia e dalle baionette “liberali” e massoniche, quel popolo che ha dato vita ad una insorgenza popolare, come quella guidata dal cardinale Ruffo, tanto splendida ed eroica da essere ancor oggi sottaciuta e nascosta, disprezzata e demonizzata, per impedire alla sua immensa luce di illuminarci, non può che renderci orgogliosi della nostra “duosicilianità”, cosa che per molti di noi, fino a poco tempo fa, quando la nostra coscienza identitaria era “solo” quella di un “italiano”, era del tutto sconosciuta.

(L'articolo contiene ampi brani liberamente tratti dal libro “I lager dei savoia”, di Fulvio Izzo. Sottotitolo: “Storia infame del risorgimento nei campi di concentramento per meridionali”, Edizioni Controcorrente. Contiene inoltre ampi brani altrettanto liberamente tratti da discorsi di Isaiah Berlin).

venerdì 4 dicembre 2009



A proposito del referendum sui minareti e sulle moschee

Oggi ho voglia di sognare o forse di delirare! Sogno (o deliro?) di rivolgermi a quegli immigrati in Padania sempre più in difficoltà a vivere in quelle terre inospitali per clima e società.

Venite da noi, voi umili, scacciati ed offesi, venite nelle Due Sicilie! Molti di voi, venendo in Italia, sono arrivati direttamente in Padania, attirati dalla maggior prosperità di quelle terre. Ed oggi credono che l’Italia sia tutta come la Padania, magari meno ricca, ma comunque Padania.No, non è così!

Le Due Sicilie sono ben diverse dalla grigia e volgare Padania (almeno spero). Questa è una terra che nei secoli è stata più di una volta martoriata ed offesa, ed oggi, da 150 anni, vive schiacciata sotto il tallone di “sciur Brambilla”. Terra umiliata, forse come la vostra, ma non doma.Qui non siamo padani con la puzza sotto il naso e bauscia sempre pronti a credere al primo imbonitore che si alza e comincia a predicare odio. Qui siamo nella terra della dolcezza, del sole, del buon vivere, nell’antica Ausonia, terra del sogno, terra di sogno! Una terra che i barbari del Nord ci hanno sempre invidiato e che periodicamente sono venuti a depredare, approfittando di un popolo che non ama la guerra e a cui interessa soltanto godersi quei 70 – 80 anni che il Signore vorrà concederci di vivere su questo pianeta, a Lui piacendo.

Qui tutti sono stati e sono i benvenuti. Specie ora che la nostra migliore gioventù ci sta abbandonando, vittima di una crisi economica e sociale distruttiva, vittima di un lavaggio del cervello meticoloso che ancora ci far credere d’essere dei poveri incapaci quando siamo a casa nostra e invece capacissimi di emergere in terra straniera, non appena attraversiamo il Tronto o il Garigliano.Senza di voi, giovani marocchini, pakistani, albanesi, ecc. molti nostri borghi, paesi e quartieri cittadini sarebbero spopolati e senza vita, con solo pochi pensionati soli o con badante al seguito, e senza attività economiche vive.Chi ha visto l’evoluzione che ha avuto il quartiere Ferrovia di Foggia (pur con le sue conseguenze negative, non le neghiamo) o la Piazza della Ferrovia di Napoli, capisce cosa dico. Queste realtà oggi sono brulicanti di vita vera, di kebab, di macellerie halal, di ristoranti indiani, di punti telefonici e internet ecc. tanto quanto ieri vedevano solo il misero diseredato napoletano che vendeva calzini, ombrelli o fazzolettini di carta o, a Foggia, il negozietto che sopravviveva senza vedere un rinnovamento almeno da 40 anni. Cari amici e fratelli stranieri e musulmani (perchè è soprattutto con voi che ce l’hanno. Qualcuno l’ha detto: “Non ho niente contro la società multietnica, ma quello che non voglio è una società multiculturale!”), se vi scacciano o vi rendono la vita difficile, lassù in Padania, non andate via, ma venite nelle Due Sicilie. La nostra terra è rifiorita ogni qualvolta sono arrivate energie fresche dal Sud del mondo!

Qui, nelle Due Sicilie, scoprirete di essere di casa. Vostri fratelli nei secoli passati vi hanno preceduto ed hanno lasciato i segni del loro passaggio: moschee, minareti, archi intrecciati, chiostri di Paradiso, nomi di città, paesi, fiumi e montagne, parole, usi e costumi, veli neri, dignità, sangue, visi olivastri. Come cantava Mimmo cavallo “siamo mezzi marocchini, teniamo l’Africa vicina!” E quei vostri fratelli di tanti secoli fa hanno anche versato il loro sangue per difendere quella che era anche la loro patria, queste nostre Due Sicilie. Erano a Cortenuova, con Federico II, a combattere contro i leghisti; erano al fianco di Manfredi, nella tragica giornata di Benevento, quando i baroni del Regno abbandonarono il loro giovane Re; erano a Lucera a combattere contro l’Angioino usurpatore, fino al 1300, quando il resto del Regno si era arreso già da 34 anni; ed erano a Napoli, con il Cardinale Ruffo, nell’indimenticabile apoteosi della marcia sanfedista per la riconquista del Regno.

Dunque questa terra è benedetta anche dal vostro sangue, ed oggi dalla vostra presenza e dal vostro lavoro.Venite dunque, questa è casa vostra. Venite a ricostruire e ad abitare la casa del poeta Ibn Hamdis, che ancora vi aspetta, infestata dai rovi, tra le rovine di Noto vecchia; venite a ridare una boccata di ossigeno, di fiducia, di dignità e di vita ad un popolo stanco, che soffre da 150 anni della spoliazione della propria identità e che è stato diseredato della propria dignità. Siamo fra i diseredati della Terra, ma voi sapete bene cosa dice il Santo Corano: “Un giorno la terra sarà dei diseredati”.

Una sola cosa vi chiedo: noi siamo un popolo che tiene molto alle cose fondamentali, ed una di queste sono le nostre donne. Molte di esse hanno già costruito una famiglia con voi, apprezzando la vostra umanità e la vostra gentilezza. Abbiate sempre buone intenzioni, ma se ve ne vengono di cattive, lasciatele stare, altrimenti reagiamo male. Fate questo e siederete onorati alla nostra tavola e condividerete con noi, insieme al cibo, le gioie, i dolori e le speranze.
Pace a voi, salam ‘aleykum.
Mustafa

sabato 4 luglio 2009

Alì e l'elefante


Alì era un catanese, un catanese del 1200. Suo padre Fathi gli aveva lasciato due eredità molto ingombranti: la prima era quel nome, Alì, che immediatamente lo individuava come siciliano di origine araba e di religione musulmana. Ciò gli comportava molti problemi con i suoi concittadini, ma Alì sopportava tutto con pazienza anche perchè egli era orgoglioso di essere catanese almeno quanto di essere di origine araba e musulmano. La seconda “ingombrante eredità” lasciatagli da suo padre era stata niente di meno che un elefante. Il pachiderma, arrivato in Sicilia dall’Africa come “trattore” per dissodare il campicello di famiglia, era sopravissuto a Fathi ed era pervenuto in eredità ad Alì alla morte del padre.
Quando Federico II represse le ultime scintille della rivolta musulmana a Entella e Gaito ed esiliò tutti i musulmani di Sicilia a Lucera di Capitanata, Alì dovette lasciare la sua casa nella campagna catanese e, seguendo le sorti dei suoi correligionari, trovò rifugio e nuova vita all’ombra del palazzo imperiale lucerino, entrando a far parte della guarnigione militare saracena insieme all’elefante, cui era stato dato il nome di “Alfio”, storpiatura dell’arabo “Al-fil”, che vuol dire semplicemente “l’elefante”.
Quando nel 1237 Federico II organizzò una spedizione in Padania per ridurre all’obbedienza i comuni leghisti ribelli, ad Alì venne ordinato di unirsi alla spedizione e di condurre con sè Alfio, l’elefante, con il compito di guidarlo attraverso le fila nemiche per gettarvi scompiglio e terrore. E così Alì partì, insieme ad altri 10.000 saraceni, a rinforzare l’esercito imperiale, a ulteriore riprova di come i musulmani duosiciliani siano sempre stati in prima fila ogni qualvolta s'è trattato di versare il proprio sangue per la nostra patria.
E dopo alterne vicende arrivò il giorno di Cortenuova. Presso questa località padana l’esercito imperiale affrontò quello della Lega, in tutto si scontrarono 35.000 soldati. L'esercito imperiale, fingendo di ritirarsi per l’inverno verso l'alleata Cremona, si portò invece sul più favorevole territorio di Cortenuova organizzando un’imboscata alla coalizione milanese-bresciana, indotta dalla finta mossa federiciana, a ritirarsi dal campo di battaglia.
I saraceni e i bergamaschi attaccarono l’esercito leghista a diverse ondate inducendolo ad affrettare la ritirata. Al calare della notte, Federico ordinò ai suoi uomini di dormire con l'armatura addosso, poiché l’indomani, alle prime luci dell'alba, avrebbero dovuto sferrare l’attacco decisivo. Infatti, il Podestà di Milano aveva deciso di ritirarsi sfruttando il buio della notte. Ma il terreno, reso molle e fangoso dalle piogge di novembre, rallentava molto la ritirata e così fu ordinato di abbandonare il Carroccio a Cortenuova insieme a tutti i bagagli ingombranti e pesanti. A malincuore i soldati avevano obbedito abbandonando il Carroccio, proprio emblema di guerra, spogliato però di ogni stendardo e vessillo.
All'alba del 27 novembre Federico ordinò alla cavalleria di lanciarsi all'inseguimento dell'esercito leghista in rotta. Il vero massacro e il conseguente annientamento dell'esercito della Lega si perpetrò proprio in quel momento. I bergamaschi massacrarono selvaggiamente milanesi e bresciani che cercavano di lasciare frettolosamente il campo di battaglia senza più nemmeno combattere. Chi riusciva a scappare dalla violenza degli orobici, si gettava nel fiume Oglio in piena, dove annegava senza scampo. Alla fine del massacro, si contarono circa 10.000 morti per l'esercito della Lega Lombarda, e moltissimi prigionieri. Tra di essi anche 300 nobili di Milano, Alessandria, Torino e Vercelli, lo stesso podestà di Milano, nonché Pietro Tiepolo, figlio del doge di Venezia. Federico II, dopo la schiacciante vittoria, fece un ingresso trionfale nella città alleata di Cremona, portando come trofeo il Carroccio, trainato da un elefante, il nostro Alfio, che recava lo stendardo imperiale. Sul Carroccio era legato il Podestà di Milano con un cappio al collo. Il suo destino era ormai segnato; oltre alla pesante umiliazione subita, Federico II lo rinchiuse in diverse prigioni della Puglia, ed alla fine, decise di metterlo al patibolo. Il Carroccio venne inviato con una missiva al Pontefice a Roma.A guerra terminata. Alì, per i servigi resi, ottenne, in deroga al decreto di esilio, di poter tornare nella nativa Catania con un buon vitalizio e con l’obbligo di prendersi cura di Alfio l’elefante vita natural durante, cosa che Alì fece molto volentieri in quanto Alfio era per lui più di un parente stretto. Alì si stabili in una casetta sul mare presso il castello Ursino e tutti i giorni portava Alfio a passeggio sulla spiaggia. Ben presto l’elefante divenne l’amico di tutti i catanesi, in particolare dei ragazzetti che approfittavano della mansuetudine dell’animale per saltargli in groppa e giocare con la sua proboscide. La gente portava da mangiare al suo beniamino ed al suo padrone e tutti erano felici di condividere un po’ della loro vita e della loro giornata con Alfio, dilettandosi a farsi raccontare da ‘Alì la giornata di Cortenuova, quando Alfio aveva umiliato la Lega! Ed Alì non si sottraeva al racconto, che aveva ormai imparato a memoria attrezzandosi addirittura con cartelloni dipinti a vivaci colori che riportavano le scene salienti di quella esaltante giornata. Ma il tempo passa per tutti, ed un bel giorno Alfio venne trovato morto nella sua stalla sulla spiaggia. Aveva vissuto quasi 120 anni ed era ormai stanco della vita. Fu seppellito con tutti gli onori in una tomba che rimase sulla spiaggia per tanto tempo, fino a quando nel 1600 la lava dell’Etna la coprì per sempre. Ma alcuni di quei ragazzi, ormai uomini, che avevano giocato e fraternizzato con Alfio vollero che fosse ricordato per sempre. Si ricordarono che nei sotterranei dell’anfiteatro romano c’era la statua di un elefante che risaliva - si diceva - agli antichi Romani. La statua fu recuperata, ripulita, sistemata e fu quindi collocata nella piazza principale della città, davanti al duomo di Sant’Agata. Con quel monumento la città non si sarebbe più dimenticata di Alfio che diventò da allora il simbolo stesso di Catania, simbolo di forza, di onore e ... di vittoria sulla Lega, nonchè augurio di un pronto riscatto per le nostre Due Sicilie!