Un paese quasi islamico
Sono stanco di usare un’espressione soltanto geografica per indicare una realtà complessa. Sono stanco di definire la mia terra come “Italia meridionale”. Bene ha fatto Bossi a coniare per la “sua” terra, l’Italia settentrionale, il nome di Padania. Per una terra il nome è tutto. Esso deve evocare non solo la sua collocazione geografica, ma la sua storia, la sua cultura, il suo modo di vivere, di essere, tutto. Togliete il nome ad un paese e gli avete tolto tutto. Come manifesteremo l’orgoglio di essere figli di una terra se non ne possiamo pronunciare il nome?Ogni cosa oggetto d’ amore ha bisogno di un nome da sognare, evocare, pronunciare, scandire. Questo vale ancor di più per una terra, per amarla, evocarla, sognare il suo riscatto, la sua rinascita, la sua affermazione. E’ per questo che (per ora) definirò la mia terra, quella che va dall’Abruzzo alla Stretto, con lo storico nome di “Ausonia”; e per indicare il suo essere un tutt'uno con la Sicilia dirò “Ausonia e Sicilia” oppure "Due Sicilie”.
Sono stanco di usare un’espressione soltanto geografica per indicare una realtà complessa. Sono stanco di definire la mia terra come “Italia meridionale”. Bene ha fatto Bossi a coniare per la “sua” terra, l’Italia settentrionale, il nome di Padania. Per una terra il nome è tutto. Esso deve evocare non solo la sua collocazione geografica, ma la sua storia, la sua cultura, il suo modo di vivere, di essere, tutto. Togliete il nome ad un paese e gli avete tolto tutto. Come manifesteremo l’orgoglio di essere figli di una terra se non ne possiamo pronunciare il nome?Ogni cosa oggetto d’ amore ha bisogno di un nome da sognare, evocare, pronunciare, scandire. Questo vale ancor di più per una terra, per amarla, evocarla, sognare il suo riscatto, la sua rinascita, la sua affermazione. E’ per questo che (per ora) definirò la mia terra, quella che va dall’Abruzzo alla Stretto, con lo storico nome di “Ausonia”; e per indicare il suo essere un tutt'uno con la Sicilia dirò “Ausonia e Sicilia” oppure "Due Sicilie”.
Veniamo al dunque. Vorrei parlare della costiera amalfitana dove ho trascorso 10 bellissimi giorni di vacanza la scorsa estate. Questo soggiorno mi ha consentito di conoscerne degli aspetti a me sconosciuti e quindi sorprendenti.
Furore
La nostra “residenza” è a Furore, “il paese che non c’è”. Esso infatti si sviluppa lungo tutto lo strapiombo che da Agèrola giunge ripido e rapido fino al mare. Non ha una piazza, un passeggio, un lungomare; no, le sue case sono aggrappate alla montagna strapiombante, e vi si accede dagli infiniti tornanti che da Amalfi salgono ad Agèrola. Alla definizione ufficiale noi ne abbiamo aggiunta un’altra: “un paese con i piedi nell’acqua e la testa tra le nuvole”. Infatti, una domenica siamo saliti ad Agèrola, paese che inizia laddove finisce il dirupo e inizia l’altopiano. Ebbene, mentre la parte bassa di Furore, ovvero la costa ed il suo magnifico fiordo, era immersa nel caldo sole agostano della costiera, le sue ultime case, poste alla sommità del monte, al confine del territorio di Agèrola, erano immerse nelle nubi rimaste incagliate su quegli alti picchi. Ne derivava un’atmosfera novembrina davvero piacevole oltre che surreale. Molte delle case di Furore sono formate da cellule abitative quadrilatere con copertura a botte, tipologia che poi abbiamo riscontrato in chiave più monumentale anche nel chiostro del Paradiso di Amalfi e nelle chiese arabo-sicule di Ravello. Ebbene queste case dal vago gusto arabo, si chiamano monazzeni, parola che dicono provenga dal greco “vivere in solitudine”. Però è evidente anche l’assonanza tra monazzeni e manazil, che in arabo sta per “stazioni, approdi, casali”. Tali sono infatti queste costruzioni, dei luoghi dove fare sosta, magari quando il mare ingrossa e non consente di raggiungere il porto. Da manazil o monazil a monazzeni il passo sarebbe breve. E’ un segno, una traccia. Del resto il toponimo manazil era diffuso anche in Sicilia per indicare i casali con cui gli arabi popolarono un territorio dapprima desolato. Manzil (singolare di Manazil) Hindi era l’antico nome di S. Margherita Belice, e Misilmeri è la distorsione dell’arabo Manzil-Amiri, il casale dell’Emiro.
Amalfi
Qui non si vedono immigrati, nè musulmani nè tanto meno cristiani. Non vediamo le classiche bancarelle degli ambulanti marocchini né i negozi di chincaglierie pakistane. Non ci sono kebab, ma ne comprenderemo presto il motivo: qui la cucina tradizionale è così forte e viva (e gustosa) che non necessita di elementi d’importazione. Tuttavia, quando nei giorni seguenti siamo entrati in una farmacia di Furore, abbiamo sentito il farmacista che prendeva una telefonata e a chi l’aveva chiamato ha risposto: “Dimmi, Hassan, cos’è successo?” Ci sono, ci sono i musulmani. Non fanno gli ambulanti e quindi non si vedono. Forse lavorano nei campi terrazzati della montagna, dove coltivano limoni e “cucuzzille” giganti, o lavorano negli alberghi, chissà, ma comunque ci sono, e questo è importante. Non sono andati perduti come i loro bagni e le loro moschee maiolicate. Ma torniamo alle ricerca delle tracce lasciate dai loro progenitori.Siamo alla cattedrale. Oggi, per visitarla, non si passa per la porta principale posta alla sommità della famosa e scenografica scalinata, ma bisogna passare attraverso il chiostro del Paradiso. Dalla lettura dei depliant illustrativi scopriamo che in antico era proprio questo l’accesso principale. Ebbene, non c’è niente di più islamico di questo chiostro. La pianta quadrata, il pozzo centrale, i suoi archi intrecciati, il colore bianco (ma fosse stato mosaicato, come quello di Monreale, non sarebbe stato da meno), tutta la sua estetica ricorda le architetture dell’Islam (una per tutte, il Patio de los Naranjas, il cortile degli aranci, che introduce alla sala di preghiera della moschea di Cordova).Ma anche l’aura spirituale che lo caratterizza è squisitamente islamica. Il silenzio e l’atmosfera magica ed ovattata che fa da preludio alla sala di preghiera, predispone l’animo a distaccarsi dalle frenesie del mondo di fuori e a trovare la concentrazione adatta per rivolgersi al Signore Onnipotente, Dio dei cristiani, dei musulmani e di tutte le creature (che è poi il senso che bisogna dare al nostro dirci monoteisti!).Passando dal chiostro si accede alla basilica antica, a due navate, e da questa a quella medievale, che ne conta tre. In tempi antichi, queste due basiliche erano unite e la chiesa, con il chiostro che la precedeva e le sue cinque navate, “sembrava - e non siamo noi a dirlo, ma le antiche cronache - più una moschea saracina che una chiesa pe’ li cristiani”. Forse anche questo indusse un bel giorno a separare con un muro le due basiliche e a spostare l’entrata principale sulla gradinata che si andò a realizzare, lasciando isolato il chiostro. Nella cattedrale – non lo sapevamo – c’era la tomba dell’apostolo Andrea, apostolo di Gesù (pace su di lui) e fratello di Pietro. Ci siamo ricordati dei versetti del Corano in cui Gesù dice: “Chi mi sosterrà sulla via di Allah?” A questo appello risposero prontamente i suoi apostoli, quindi anche Andrea: “Noi ti sosterremo sulla via di Allah e tu testifica che noi ti rendiamo testimonianza”. Sicuramente Andrea recitò la sua professione di fede: “Io testimonio che non c’è altra divinità che Allah e che Gesù è il suo servo ed Inviato!” Era un musulmano del suo tempo e per questo gli abbiamo reso omaggio, sulla sua tomba, con una Fatiha, la recitazione della prima sura del Corano.Usciamo dalla cattedrale. Il suo campanile, di schietto stile arabo-siculo, è praticamente gemello con quello di Melfi, salvo che quest’ultimo risulta rovinato nell’insieme da una cuspide terminale rifatta, insipida e completamente fuori luogo. Fuori della cattedrale, mentre percorro la via principale del paese, annoiato dai soliti negozietti di souvenir che invece tanto piacciono a mia moglie, la mia attenzione viene attirata da una targa in ceramica che reca la scritta: “Bagno arabo"In realtà è un negozietto di chincaglierie formato da due piccoli ambienti di cui uno sormontato da una cupoletta a conchiglia. Non è molto, ma è una importante traccia di una presenza stanziale di musulmani. Ci siamo ricordati che Amalfi, Napoli, Salerno, secondo il momento, stringevano e rompevano alleanze con i Saraceni di Sicilia, e che quelli che a leggere i libri di storia sembrano solo piccoli intervalli di tempo, in realtà, nella vita vissuta dai protagonisti del tempo, dovevano essere abbastanza lunghi da pensare a dotarsi di comodità stabili come fondachi, moschee e bagni pubblici. Abbiamo scoperto che anche Scala e Pontone, due paesini dell’immediato entroterra amalfitano, vantano la presenza di bagni arabi tra le loro emergenze storiche e architettoniche. Non siamo però riuscita a visitarli.Ma ... e le moschee? Quasi alla fine del corso c’è il muro di un cortile, che presenta lo stesso motivo ad archi intrecciati (ora murati) del chiostro del Paradiso. La nostra irrefrenabile fantasia ci porta ad immaginare che quello fosse il muro della esterno della moschea, un muro uguale a quello del chiostro della cattedrale! E’ solo una fantasia, ma siamo sicuri che, se la moschea non era lì, non doveva essere molto lontana.Ma come sarà stata questa moschea? Man mano che l’ambiente che ci avvolge ci penetra con la sua magia, l’immagine di questa moschea perduta si forma nella nostra mente come un puzzle. I tasselli ci vengono forniti un po’ per volta da quel che vediamo. Finora abbiamo tre tasselli: il cortile, simile al chiostro del Paradiso e di cui questo muro ne è forse un brandello; il rivestimento, in mattonelle di ceramica, come ce ne sono tantissimi in tutto il paese; la cupola, come quella del bagno arabo di poco fa.Il tassello più importante lo troveremo più avanti, a Ravello.
Ravello ovvero "Avevamo l’Alhambra e non lo sapevamo!!"
Dopo il meritato riposo nel nostro buen ritiro, dalla cui verandina si gode (mai verbo fu più appropriato) della vista del mare e del borgo di Praiano, che ci sembra Sidi Bou Said teletrasportato in Costiera, il mattino seguente si va a Ravello.Già nella sua etimologia (Ravellum, rebellum) questo piccolo borgo indica una ribellione, la ribellione all’ovvio e al banale. La storia ci narra che gli amalfitani, forti dei proventi dei loro commerci, si costituirono in repubblica marinara indipendente dalla corona normanna. Ma una parte dei suoi cittadini si “ribellarono” a questa sete d’indipendenza in nome del neg-ozio e le preferirono la fedeltà ai re normanni – che, ricordiamolo, costituirono il primo stato unitario d’Europa, ben prima della stessa monarchia inglese – e l’ozio. Si esiliarono infatti lontano da quel mare che così tanti commerci consentiva e si ritirarono su queste aspre montagne da dove il mare lo vedevano soltanto e dove l’ambiente unico circostante invitava non allo scontato neg-ozio, ma al più ricercato ozio. Furono dunque dei ribelli alla ricerca di uno stile di vita, degli sradicati accomunati dall’amore della bellezza e dell’ozio creativo, ribelli, oseremmo dire, proiettandoci nel presente, alla volgarità moderna.Quando, intorno al 1280, il nobile Matteo Rufolo diede inizio alla edificazione della villa che porta ancora oggi il suo nome, non dovette avere uno spirito meno ribelle dei suoi padri. E’ opportuno ricordare, infatti, che pochi anni prima, nel 1266, Manfredi, il legittimo Re di Sicilia (che comprendeva anche l’Ausonia), “biondo, bello e di gentile aspetto” come lo descrisse Dante, era morto da eroe affrontando a Benevento le truppe mercenarie dell’Angiò, chiamate dal Papa per una vera e propria crociata contro noi siciliani (ed ausoni) che avevamo l’ardire di spalleggiare il nostro Re nella sua politica d’opposizione ai privilegi ecclesiastici e favorevole al dialogo intermediterraneo, temi attualissimi ancor oggi e che ancora provocano forti odii nonchè tensioni interne ed internazionali.Il Sultano di Lucera! Così era chiamato Re Manfredi dai suoi nemici, in chiave ovviamente dispregiativa, e così lo chiameremo noi, con orgoglio e apprezzamento.Ebbene, quando la ribellione non può esprimersi politicamente in quanto i governanti lo impediscono – è il caso dell’Angiò – trova allora nella cultura un ambito più sottile, ma non meno potente per esprimersi. Forse il buon Matteo Rufolo – anche questa è una nostra fantasia, o al massimo una ipotesi – volle commissionare la costruzione a qualcuno dotato di spirito e cultura islamica o islameggiante, in modo da esprimere con questa villa la sua solidarietà e il rimpianto per Manfredi, il Sultano di Lucera, il Re Martire. E quale miglior dichiarazione d’affetto e solidarietà se non l’edificazione di un complesso che evocasse quella luminosa civiltà islamica in opposizione alle tenebre calate sull’Ausonia dopo l’avvento dell’Angiò? Tutto a Villa Rufolo parla d’Islam, d’Islam europeo, di quell’Islam che a quell’epoca non era affatto un corpo estraneo, ma aveva intriso di sé l’intero Mediterraneo, l’Andalusia e la Sicilia in particolare.E’ una Alhambra fiorita, villa Rufolo. Lo storico salernitano Paolo Peduto l’ha definita un palazzo-giardino islamico. Già l’androne della torre d’ingresso possiede una volta a conchiglia in schietto stile arabo siculo, simile a quella del bagno arabo visto giù ad Amalfi. Ma è nel chiostrino quadrato che si raggiunge il massimo dell’evocazione dell’Islam nonchè della casata sveva. E’ un cortiletto quadrato e porticato sia al piano terreno che al primo piano. Ma i grandi archi ogivali del piano terra sono coronati dai leggiadri archetti intrecciati del primo piano. In questo chiostrino si fondono il vicino Chiostro del Paradiso di Amalfi, i cortili delle madrase di Fes, i patios andalusi, ma anche un cortile che a noi dauni sarebbe familiare se non fosse andato perduto. I muraglioni costruiti successivamente per sostenere la costruzione, evidentemente pericolante, ne nascondono un po’ la struttura, ma il nostro occhio la riconosce immediatamente. Quante volte abbiamo visitato il Palazzo di Federico II a Lucera nel continuo tentativo di farcene un’immagine almeno nella nostra mente! Si, seppur nella diversità dei particolari, il chiostrino di Villa Rufolo è praticamente uguale a quello che doveva essere il cortile del Palazzo di Lucera.E Lucera, Luceria Saracenorum, era la città simbolo della politica di Federico prima e di Manfredi poi, con il loro Palazzo posto al centro di una città popolata da sessantamila musulmani! Anche per questo Villa Rufolo è un palazzo-giardino islamico, perchè con l’Islam ne condivide gli ideali, i riferimenti, i personaggi e quant’altro ancora. Nè con questo il Rufolo volle mettere in dubbio la sua appartenenza alla Cristianità, tanto da commissionare importanti opere d’arte nella locale Cattedrale. Ausonia era una società multiculturale, come lo sono tutte le società islamiche, a dispetto delle fobiche società occidentali dove il diverso ha fatto e fa sempre paura.Ma a parte il patio “islameggiante” e la torre arabo-sicula dell’ingresso, è tutta la villa ad avere un impianto islamico, nella sua connotazione di giardino incantato. Giardini e padiglioni, pieni e vuoti, spazi esterni e spazi interni si alternano e si intersecano in una mirabolante arabesco che stordisce tanta ne è la bellezza. Infine non si sa più se ci si trova in un palazzo, in un giardino o in una passeggiata all’aperto a gustarsi uno dei panorami più belli del mondo.Se questa villa anziché da un nobile fosse stata edificata da un Re, oggi non staremmo a parlare di una villa, ma di un Palazzo Reale. Il fatto di chiamarla “villa” trae in inganno e la sminuisce. Una tale meraviglia meriterebbe un nome più altisonante che ne accentuasse la simbolicità ed unicità. Se l’Alhambra fosse giunta a noi con il nome, chessò, di “Villa Boabdil” avrebbe perso una parte consistente del suo fascino. E’ già il nome di “Alhambra”, la (fortezza) Rossa, che affascina, donandogli un aura di nobiltà che è tutto dire. La Zisa di Palermo, per esempio, ha questa fortuna: “al-Azizah” la Splendida, la magnifica residenza dei Re Normanni. Bisognerebbe lanciare un concorso di idee per dare un nuovo nome a Villa Rufolo, anche se l’assonanza di “Rufolo” con Zefiro lascia presagire e gustare la brezza profumata che l’accarezza, sotto l’abbraccio del sole del Mediterraneo.Villa Cimbrone, seppur bellissima, dal punto di vista della ricerca delle tracce islamiche in Costiera, non ha la stessa attrattiva di Villa Rufolo. Tuttavia è qui che troviamo il tassello mancante al puzzle della moschea. Ci eravamo chiesti in precedenza come sarebbe potuta essere una moschea amalfitana dell’anno 1000. Sicuramente rivestita di ceramica, sicuramente con un cortile circondato da archi intrecciati, sicuramente con una cupola a conchiglia. Ma quale doveva essere il suo impianto spaziale? Ebbene, a Villa Cimbrone c’è la risposta: un padiglione con i quattro angoli e altri dettagli rivestiti in ceramica dei colori classici della costiera. Un padiglione dove gli spazi interni e quelli esterni, grazie ai soliti archetti, si intersecano come a Villa Rufolo, un padiglione coperto, ma non chiuso, uno spazio aperto, ma non scoperto. L’ideale per quando fa caldo e quanto basta per i pochi giorni piovosi e freddi. Chi ha visitato la Spagna ricorderà la piccola moschea di Bab el-Mardum a Toledo, oggi chiamata il Cristo della Luz poiché trasformata in chiesa dopo la Reconquista: una piccolo boschetto di colonne aperto sull’esterno, dove il sole e l’ombra si rincorrevano, senza alcun filtro, tra le arcate. Un gioiello! E tale doveva essere, o potrebbe essere, una moschea amalfitana o ravellese. “Girando per le strette vie di Ravello si ha un anticipo di Palermo, giacché questa cittadina, di stile arabo normanno e orientalizzante, è una Palermo in miniatura al riparo dei monti”. (Guido Piovene) E in questa Ravello quasi islamica ci lavorava un nostro illustre concittadino, il figlio di quel Bartolomeo da Foggia che scolpì l’arco del Palazzo imperiale di Foggia. Era Nicola di Bartolomeo da Foggia, autore del pulpito della Cattedrale ravellese, e che in seguito - precursore purtroppo di tanti foggiani – dovette andar fuori dalla sua città e dai confini di Ausonia, che moriva sotto il tallone dell’Angiò, per trovare lavoro e gloria in quel di Pisa dove raggiunse la maturità artistica e la fama con il nome di Nicola (detto il) Pisano.
Positano
Della splendida Positano, dalle sue bianche case mediterranee, le cui finestre e verande occhieggiano all’azzurrissimo mare, in un rigoglio incantato di vegetazione, vogliamo solo raccontare della mostra che abbiamo avuto fortuna di trovare nel Duomo. Qui alcuni soggetti religiosi tipicamente cattolici erano stati illustrati dalla pittrice con rappresentazioni, per così dire, islamiche. Valga x tutti questa Addolorata.
Conclusione
In realtà – è quello che stiamo pian piano scoprendo – la presenza islamica in Italia non c’è stata soltanto in Sicilia o al massimo nella Lucera Saracena. Tutta l’Ausonia ha avuto l’onore e l’onere di questa presenza, dove per pochi, dove per lunghi anni, anni che comunque hanno lasciato la loro influenza e hanno determinato, nel bene e nel male, il modo di essere degli abitanti.Mattinata, Bari, Taranto, Lagopesole, Benevento, Girifalco, Torre di Bugiafro, Squillace, Amantea, la Saracina (il territorio che va da Portici a Torre del Greco), Reggio, Le Castella, Pietrapertosa, Tricarico, ... Foggia e chissà quanti altri paesi ancora.Avremo modo, a Dio piacendo, di parlarne.
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