Blas Infante, l’Islam e l’identità andalusa
tratto da un articolo di Ali Manzano (www.webislam.com)
Nel 1983 il Parlamento di Andalusia approva all’unanimità il proprio Statuto di Autonomia riconoscendo Blas Infante “come Padre della Patria Andalusa”. Egli riuniva in sè tutte le caratteristiche necessarie per questa figura: martire, assassinato dalla destra “ispanista”, e rappresentante di quell’idea autonomista che la dittatura del generale Franco aveva stroncato.
Me se guardiamo oltre la “icona” di Blas Infante fattaci pervenire dai politici, troviamo un’opera e un pensiero, accompagnati da un’azione sociale, politica e culturale, che sicuramente, nè ai politici di oggi nè a quelli di ieri risulta comoda. Blas Infante fu un “rivoluzionario” che visse e pensò “controcorrente”, rinunciando ai privilegi di cui godeva la sua classe sociale. Appartenente alla borghesia andalusa, egli abbraccia la causa dei braccianti, i discendenti di quei moriscos che la terribile conquista Castigliana lasciò senza terra. Aveva ricevuto una formazione accademica nella quale la storia dell’Andalusia non esisteva, se non attraverso la visione distorta e interessata dei colonizzatori castigliani. Ma egli la rivoltò, fornendoci la chiave e la strada per il recupero della memoria storica, occultata da cinque secoli di cultura imposta. Infine Blas Infante, nato cristiano, si riconosce musulmano, recuperando il “Din” (cammino dell’Islam) dei suoi antenati, la forza vitale di Al-Andalus.
Se rimuoviamo i veli posti sulla nostra mente dai pregiudizi culturali che 500 anni di “guerra contro il moro” e dall’educazione “uniculturalista” imposta, vedremo e comprenderemo il processo e le motivazioni che condussero Infante su du un cammino che poteva condurlo solo e soltanto all’Islam. Sono tantissimi gli andalusi che hanno percorso lo stesso cammino, ma il caso di Blas Infante è particolare essendo improntato ad una qualità affatto comune nell’essere umano: l’intuizione. La sua intuizione lo portò a scoprire tutto un Universo che a noi andalusi era stato celato dopo la conquista Castigliana. Non ci stiamo riferendo soltanto alla storia, tanto diversa da quella che i nostri conquistatori ci hanno raccontato, ma a filosofia, scienza, letteratura, arte, spiritualità… in definitiva, la nostra identità. Nessuno, dalla conquista cristiana in poi ebbe la capacità di enunciare l’essenza dell’Andalusia, l’identità perduta. Solo l'intuizione di Infante fu capace di riscattare quel che i nostri conquistatori, con tanto affanno, tentarono di nasconderci.
L’intuizione porta Blas Infante all’Islam, allo scoprire l’importanza e l’influenza dell’Islam nel movimento rivoluzionario che a partire dal secolo VII iniziò a provocare il risveglio del genio andaluso, fino al fiorire di quella civiltà che fu orgoglio dell’Andalusia e oggetto dell’invidia universale.
Blas Infante fu un “cercatore”, sul piano personale e su quello collettivo. Non smise mai di porsi domande, di cercare risposte che condurranno lui e la sua grande passione, l’Andalusia, sul cammino della liberazione. Questo cammino di liberazione, lo porta a volgere lo sguardo alla storia, a cercare in essa un punto di partenza, e a trovarlo nel periodo storico di maggior splendore culturale, scientífico, sociale e politico: Al-Andalus. Infante voleva dotare il popolo Andaluso dell’orgoglio e dell’identità perduta, come strumento di liberazione, per cui la prima missione che s’impone è quella di riscattare la storia, di dotare l’Andalusia di una interpretazione storica proveniente da se stessa, senza menzogne né interessi ad essa estranei.
Nel 1921, studia la storia di Al-Mutamid, il Re poeta di Siviglia e Cordoba, scrivendo il dramma teatrale “Mutamid, ultimo Re di Siviglia”. La “metamorfosi” è iniziata. Il giovane notaio di Casares è rapito dall’Universo andaluso, non si rassegna ad essere un semplice spettatore, ma desidera participare alla esperienza andalusa, interiorizzando l’essenza della filosofia che ne svegliò il genio, abbeverandosi alle sue origini intellettuali, convertendosi nel protagonista del suo dramma teatrale. Inizia così a preparare il viaggio che lo porterà fino alla tomba di Al-Mutamid ad Agmat, vicino Marrakech, per riannodare, dopo una pausa di 600 anni, il filo delle peregrinazioni che da Al-Andalus si recavano a rendere omaggio ad un uomo che rappresentò ed ancora oggi rappresenta il silenzio dell’Andalusia, dell’Islam andaluso.
L’Andalusia, terra a cui l’Islam portò gli arnesi con cui forgiare la libertà, basata sul rispetto di tutte le forme d’intendere la vita e la spiritualità, si ritrova sotto pressione e ingabbiata dai terribili fondamentalismi dei popoli del Nord e del Sud, che ai tempi di Al-Mutamid a Siviglia e di Boabdil a Granada, misero termine al sogno di un popolo che una fredda mattina di gennaio dell’anno 1492 si svegliò schiavo dell’odio e dell’invidia dei popoli barbari del Nord.
Con l’illusione di chi cerca un tesoro, Blas Infante inizia i preparativi del viaggio che lo condurrà sulle orme di Al-Andalus, che nella nostra terra è semi-occultata sotto il tallone di 500 anni di genocidio físico e culturale, ma che in Marocco ancora sopravvive negli edifici costruiti dagli Andalusi e nelle forme culturali ereditate da un’influenza che dura da centinaia d’anni.
Il motore del cambiamento che generò questa civiltà fu l’Islam. Lo incontriamo ogni volta che ci immergiamo nella storia di Al-Andalus, o quando proviamo a conoscere le motivazioni che portarono i nostri avi a produrre questo cambiamento “rivoluzionario” che capovolgendo le strutture economiche, politiche e sociali imposte dalla minoranza Visigota, tirarono fuori l’Andalusia dalla buia Età Media per anticipare il Rinascimento che secoli più tardi e grazie all’influenza Andalusa, sarebbe arrivato in Europa.
Infante era fortemente interessato a conoscere questo “generatore” di civiltà. Non poteva mancare quindi lo studio della lingua nella quale fu scritto il Corano, l’arabo, punto saltato in tutti gli studi dell’opera di Blas Infante, i quali, per aver ignorato l’Islam, non hanno potuto valorizzare l’importanza del dato. L’arabo, lingua del “Corano”, veicolo di trasmissione della “rivelazione Muhammadiana”, è lo strumento del quale si dota l’Islam per impedire la travisazione dei testi coranici.
Con l’apporto dell’arabo e dell’Islam, quello che era nato come un viaggio culturale per rendere omaggio all’ultimo uomo che regnò su di una Siviglia libera, si mutò in qualcosa di molto più intimo…, forse in un metaforico “Hajj”, (pellegrinaggio alla Mecca) quasi a voler adempiere ad uno dei pilastri dell’Islam.
Il viaggio si trasfigura in pellegrinaggio. Supera l’interesse culturale senza tuttavia dimenticarlo. Abbandona ogni frivolezza turistica e va a rendere rispettoso omaggio al Re, adempiendo al rituale disposto nell’Islam.
Nei manoscritti di Infante possiamo vedere l’animo col quale egli si dispone a questo pericoloso viaggio. E’ l’animo di un morisco andaluso, ansioso di incontrarsi con parte della sua storia, con quella che per essergli stata nascosta è la più desiderata:
“Più di un milione di nostri fratelli, di andalusi espulsi ingiustamente dalle loro case avite - le cause dei popoli non vanno mai in prescrizione – sono sparsi da Tángeri a Damasco. Il ricordo della Patria, lungi dallo sfumarsi, si ravviva giorno dopo giorno. Io ho convissuto con essi, ho sofferto con essi, ho respirato con essi la speranza della nostra comune redenzione perché questa redenzione o sarà comune o non ci sarà mai.
Nell’anno 1924 mi decisi a riannodare (il filo de) i pellegrinaggi che i nostri avi fecero per un certo tempo alla tomba di uno degli uomini più rappresentativi dello spirito della nostra terra, Abu-l-Qasim ibn Abbad, vero re di Siviglia, Córdoba, Málaga e Algarve. L’ultimo pellegrino era stato un figlio della mia montagna di Ronda, Alkhatib, ministro del sultano di Granada, nel secolo XIV. Sei secoli senza che l’Andalusia inviasse il suo “saluto” attraverso uno dei suoi figli al sepolcro del Re poeta che morì in esilio lontano, invocandola nei suoi dolorosi versi.
Grazie ad una serie di fortunate coincidenze giunsi a trovare la tomba del Re nel cimitero in rovina di Agmat, al sud di Marrakesh, sulle pendici dell’Alto Atlante.
Non avevamo altre armi né altra scorta né altra bussola che il nostro entusiasmo e il nome di Al-Andalus che disperdeva i timori e acquietava le tensioni che la nostra audacia risvegliò a volte e ci apriva le porte di quei contadini di montagna che furono tanto prodighi d’ospitalità”.
Nel contatto con questo popolo marocchino, emigrato in Maghreb per conservare lingua, costumi e pratiche (religiose) islamiche, Infante trova l’anello mancante tra la mitica e rimpianta Al-Andalus, celata dalla pesante coltre della conquista castigliana, e l’Andalusia della sua epoca. Qui, in Marocco, di fronte a innumerevoli e impressionanti vestigia dell’arte andalusa, e in compagnia dei discendenti dei moriscos Andalusi, Infante incontra la vera dimensione di popolo, di nazione:
“Il popolo andaluso fu scacciato dalla sua Patria dai re spagnoli; alcuni vivono ancora uniti, ma in paesi stranieri; altri, quelli che restarono e quelli che tornarono, i braccianti moriscos che abitano l’antica casa avita, sono esclusi inesorabilmente dalla terra che ancora è signoreggiata dai conquistatori. Ed è necessario unire gli uni agli altri. I tempi saranno ogni giorno sempre più propizi”.
“(Al-Mutamid) fu l’ultimo Re indigeno che rappresentò degnamente e brillantemente una Nazionalità e una cultura intellettuale che soccombettero sotto la dominazione dei barbari invasori. Si ebbe per lui una specie di predilezione come per il più giovane, come per il beniamino di questa numerosa famiglia di principi poeti che abbiano regnato in Al-Andalus. Se ne avvertì la mancanza, come l’ultima rosa della primavera”.
“Non sono forestiero a Marrakesh. I mori andalusi predominano nella composizione etnica della medina musulmana. (…) Marrakesh è per il mio pellegrinaggio, il limite della terra Santa, del Tempio. Ora, i riti vivono. Ora l’anima prega, accesa di religioso fervore. Ho indossato il “hizam” del pellegrino. Faccio una abluzione alla fontana della storia, con fecondi valori, figlio di una cultura che si pretese d’accecare e che divenne sotterranea e di discorso oscuro”.
Il 15 di Settembre del 1924 Blas Infante giunge al culmine del suo viaggio davanti alla tomba di Al-Mutamid. Quel che in principio fu un viaggio culturale, attraverso l’impronta storica di Al-Andalus, si era convertito in un incontro “spirituale”, un viaggio che potremmo definire “iniziatico”. A partire da qui, Blas Infante non tornò più ad essere lo stesso. Si era incontrato con la ricchezza di un Al-Andalus vivo nei discendenti dei moriscos, e con un Islam che non era soltanto nei libri, che era sufficientemente vivo per sentirlo, nella maniera in cui solo un “mumin” (credente) può farlo, intuendolo con il cuore che s’abbandona in Allah. Davanti alla tomba di Al-Mutamid, Infante ripete il rituale che si compie alla Mecca, come sua particolare forma di adempiere ad uno dei cinque pilastri obbligatori dell’ Islam: il Hajj o pellegrinaggio. Così Infante compie sette giri attorno alla tomba di Al-Mutamid, in senso opposto a quello delle lancette dell’orologio, a somiglianza dei sette giri che i pellegrini musulmani compiono alla Mecca intorno alla Kaaba.
Il 15 Settembre 1924 (Infante) recita la Shahada in una piccola moschea di Agmat, adottando il nome di Ahmad. Testimoni dell’atto con il quale egli si riconosceva musulmano, furono due andalusi nati in Marocco e discendenti dei moriscos: Omar Dukali e l’altro della kabila dei Beni-Al-Ahmar.
Il cammino che conduce Infante all’Islam, può sembrare strano a molti. Ad altri può sembrare una stravaganza permessa solo ai geni, prodotto dall’ammaliamento che Al-Andalus ha esercitato in molti personaggi nel corso della storia, o un tentativo di imitare quei re andalusi, che Infante tanto ammirava.
Ma noi che abbiamo seguito il suo stesso cammino, - Al-Andalus ci ha portato all’Islam - sappiamo della forza interiore dell’Islam e degli effetti prodotti dall’interiorizzazione di tutta una filosofia e di una forma d’intendere la vita, la creazione e la spiritualità, in base al compromesso con certi valori.
La sua relazione con l’Islam non si ferma ad Agmhat. Continuerà per tutta la sua vita, nei suoi scritti, nel suo modo di intendere la vita e nei suoi atti, con un compromesso rinforzato per e con la sua gente, la sua patria, il suo Din (cammino dell’Islam), che lo condurrà a vivere la stagione più produttiva della sua vita, tanto a livello letterario che politico, verso la divulgazione della storia e della cultura andalusa, nel suo intento di dar corso alla battaglia nel campo in cui i conquistatori più danno ci avevano arrecato, il campo della cultura.
Il suo interesse per riscattare la cultura andalusa lo porta a compiere un questo gran lavoro culturale nel quale è compresa, tra le altre cose, la richiesta al governo della restituzione della Sinagoga di Toledo alla Comunità Ebraica e della Moschea Aljama di Cordoba a quella Islamica. Una campagna a favore della costruzione di una moschea a Siviglia “non con animo di fare professione o confessione di una determinata religione, bensì con l’obiettivo di affermare la libertà e la pluralità religiosa, elementi di sintesi della Storia dell’Andalusia”, in lotta contro il pregiudizio contro il “moro” che cinquecento anni di acculturazione avevano impregnato il popolo Andaluso.
Lavoriamo con somma cautela su questi principi perché l’Andalusia torni ad essere ispirata dal suo proprio genio e perché noi, “gli andalusi, torniamo ad essere quel che fummo”.
tratto da un articolo di Ali Manzano (www.webislam.com)
Nel 1983 il Parlamento di Andalusia approva all’unanimità il proprio Statuto di Autonomia riconoscendo Blas Infante “come Padre della Patria Andalusa”. Egli riuniva in sè tutte le caratteristiche necessarie per questa figura: martire, assassinato dalla destra “ispanista”, e rappresentante di quell’idea autonomista che la dittatura del generale Franco aveva stroncato.
Me se guardiamo oltre la “icona” di Blas Infante fattaci pervenire dai politici, troviamo un’opera e un pensiero, accompagnati da un’azione sociale, politica e culturale, che sicuramente, nè ai politici di oggi nè a quelli di ieri risulta comoda. Blas Infante fu un “rivoluzionario” che visse e pensò “controcorrente”, rinunciando ai privilegi di cui godeva la sua classe sociale. Appartenente alla borghesia andalusa, egli abbraccia la causa dei braccianti, i discendenti di quei moriscos che la terribile conquista Castigliana lasciò senza terra. Aveva ricevuto una formazione accademica nella quale la storia dell’Andalusia non esisteva, se non attraverso la visione distorta e interessata dei colonizzatori castigliani. Ma egli la rivoltò, fornendoci la chiave e la strada per il recupero della memoria storica, occultata da cinque secoli di cultura imposta. Infine Blas Infante, nato cristiano, si riconosce musulmano, recuperando il “Din” (cammino dell’Islam) dei suoi antenati, la forza vitale di Al-Andalus.
Se rimuoviamo i veli posti sulla nostra mente dai pregiudizi culturali che 500 anni di “guerra contro il moro” e dall’educazione “uniculturalista” imposta, vedremo e comprenderemo il processo e le motivazioni che condussero Infante su du un cammino che poteva condurlo solo e soltanto all’Islam. Sono tantissimi gli andalusi che hanno percorso lo stesso cammino, ma il caso di Blas Infante è particolare essendo improntato ad una qualità affatto comune nell’essere umano: l’intuizione. La sua intuizione lo portò a scoprire tutto un Universo che a noi andalusi era stato celato dopo la conquista Castigliana. Non ci stiamo riferendo soltanto alla storia, tanto diversa da quella che i nostri conquistatori ci hanno raccontato, ma a filosofia, scienza, letteratura, arte, spiritualità… in definitiva, la nostra identità. Nessuno, dalla conquista cristiana in poi ebbe la capacità di enunciare l’essenza dell’Andalusia, l’identità perduta. Solo l'intuizione di Infante fu capace di riscattare quel che i nostri conquistatori, con tanto affanno, tentarono di nasconderci.
L’intuizione porta Blas Infante all’Islam, allo scoprire l’importanza e l’influenza dell’Islam nel movimento rivoluzionario che a partire dal secolo VII iniziò a provocare il risveglio del genio andaluso, fino al fiorire di quella civiltà che fu orgoglio dell’Andalusia e oggetto dell’invidia universale.
Blas Infante fu un “cercatore”, sul piano personale e su quello collettivo. Non smise mai di porsi domande, di cercare risposte che condurranno lui e la sua grande passione, l’Andalusia, sul cammino della liberazione. Questo cammino di liberazione, lo porta a volgere lo sguardo alla storia, a cercare in essa un punto di partenza, e a trovarlo nel periodo storico di maggior splendore culturale, scientífico, sociale e politico: Al-Andalus. Infante voleva dotare il popolo Andaluso dell’orgoglio e dell’identità perduta, come strumento di liberazione, per cui la prima missione che s’impone è quella di riscattare la storia, di dotare l’Andalusia di una interpretazione storica proveniente da se stessa, senza menzogne né interessi ad essa estranei.
Nel 1921, studia la storia di Al-Mutamid, il Re poeta di Siviglia e Cordoba, scrivendo il dramma teatrale “Mutamid, ultimo Re di Siviglia”. La “metamorfosi” è iniziata. Il giovane notaio di Casares è rapito dall’Universo andaluso, non si rassegna ad essere un semplice spettatore, ma desidera participare alla esperienza andalusa, interiorizzando l’essenza della filosofia che ne svegliò il genio, abbeverandosi alle sue origini intellettuali, convertendosi nel protagonista del suo dramma teatrale. Inizia così a preparare il viaggio che lo porterà fino alla tomba di Al-Mutamid ad Agmat, vicino Marrakech, per riannodare, dopo una pausa di 600 anni, il filo delle peregrinazioni che da Al-Andalus si recavano a rendere omaggio ad un uomo che rappresentò ed ancora oggi rappresenta il silenzio dell’Andalusia, dell’Islam andaluso.
L’Andalusia, terra a cui l’Islam portò gli arnesi con cui forgiare la libertà, basata sul rispetto di tutte le forme d’intendere la vita e la spiritualità, si ritrova sotto pressione e ingabbiata dai terribili fondamentalismi dei popoli del Nord e del Sud, che ai tempi di Al-Mutamid a Siviglia e di Boabdil a Granada, misero termine al sogno di un popolo che una fredda mattina di gennaio dell’anno 1492 si svegliò schiavo dell’odio e dell’invidia dei popoli barbari del Nord.
Con l’illusione di chi cerca un tesoro, Blas Infante inizia i preparativi del viaggio che lo condurrà sulle orme di Al-Andalus, che nella nostra terra è semi-occultata sotto il tallone di 500 anni di genocidio físico e culturale, ma che in Marocco ancora sopravvive negli edifici costruiti dagli Andalusi e nelle forme culturali ereditate da un’influenza che dura da centinaia d’anni.
Il motore del cambiamento che generò questa civiltà fu l’Islam. Lo incontriamo ogni volta che ci immergiamo nella storia di Al-Andalus, o quando proviamo a conoscere le motivazioni che portarono i nostri avi a produrre questo cambiamento “rivoluzionario” che capovolgendo le strutture economiche, politiche e sociali imposte dalla minoranza Visigota, tirarono fuori l’Andalusia dalla buia Età Media per anticipare il Rinascimento che secoli più tardi e grazie all’influenza Andalusa, sarebbe arrivato in Europa.
Infante era fortemente interessato a conoscere questo “generatore” di civiltà. Non poteva mancare quindi lo studio della lingua nella quale fu scritto il Corano, l’arabo, punto saltato in tutti gli studi dell’opera di Blas Infante, i quali, per aver ignorato l’Islam, non hanno potuto valorizzare l’importanza del dato. L’arabo, lingua del “Corano”, veicolo di trasmissione della “rivelazione Muhammadiana”, è lo strumento del quale si dota l’Islam per impedire la travisazione dei testi coranici.
Con l’apporto dell’arabo e dell’Islam, quello che era nato come un viaggio culturale per rendere omaggio all’ultimo uomo che regnò su di una Siviglia libera, si mutò in qualcosa di molto più intimo…, forse in un metaforico “Hajj”, (pellegrinaggio alla Mecca) quasi a voler adempiere ad uno dei pilastri dell’Islam.
Il viaggio si trasfigura in pellegrinaggio. Supera l’interesse culturale senza tuttavia dimenticarlo. Abbandona ogni frivolezza turistica e va a rendere rispettoso omaggio al Re, adempiendo al rituale disposto nell’Islam.
Nei manoscritti di Infante possiamo vedere l’animo col quale egli si dispone a questo pericoloso viaggio. E’ l’animo di un morisco andaluso, ansioso di incontrarsi con parte della sua storia, con quella che per essergli stata nascosta è la più desiderata:
“Più di un milione di nostri fratelli, di andalusi espulsi ingiustamente dalle loro case avite - le cause dei popoli non vanno mai in prescrizione – sono sparsi da Tángeri a Damasco. Il ricordo della Patria, lungi dallo sfumarsi, si ravviva giorno dopo giorno. Io ho convissuto con essi, ho sofferto con essi, ho respirato con essi la speranza della nostra comune redenzione perché questa redenzione o sarà comune o non ci sarà mai.
Nell’anno 1924 mi decisi a riannodare (il filo de) i pellegrinaggi che i nostri avi fecero per un certo tempo alla tomba di uno degli uomini più rappresentativi dello spirito della nostra terra, Abu-l-Qasim ibn Abbad, vero re di Siviglia, Córdoba, Málaga e Algarve. L’ultimo pellegrino era stato un figlio della mia montagna di Ronda, Alkhatib, ministro del sultano di Granada, nel secolo XIV. Sei secoli senza che l’Andalusia inviasse il suo “saluto” attraverso uno dei suoi figli al sepolcro del Re poeta che morì in esilio lontano, invocandola nei suoi dolorosi versi.
Grazie ad una serie di fortunate coincidenze giunsi a trovare la tomba del Re nel cimitero in rovina di Agmat, al sud di Marrakesh, sulle pendici dell’Alto Atlante.
Non avevamo altre armi né altra scorta né altra bussola che il nostro entusiasmo e il nome di Al-Andalus che disperdeva i timori e acquietava le tensioni che la nostra audacia risvegliò a volte e ci apriva le porte di quei contadini di montagna che furono tanto prodighi d’ospitalità”.
Nel contatto con questo popolo marocchino, emigrato in Maghreb per conservare lingua, costumi e pratiche (religiose) islamiche, Infante trova l’anello mancante tra la mitica e rimpianta Al-Andalus, celata dalla pesante coltre della conquista castigliana, e l’Andalusia della sua epoca. Qui, in Marocco, di fronte a innumerevoli e impressionanti vestigia dell’arte andalusa, e in compagnia dei discendenti dei moriscos Andalusi, Infante incontra la vera dimensione di popolo, di nazione:
“Il popolo andaluso fu scacciato dalla sua Patria dai re spagnoli; alcuni vivono ancora uniti, ma in paesi stranieri; altri, quelli che restarono e quelli che tornarono, i braccianti moriscos che abitano l’antica casa avita, sono esclusi inesorabilmente dalla terra che ancora è signoreggiata dai conquistatori. Ed è necessario unire gli uni agli altri. I tempi saranno ogni giorno sempre più propizi”.
“(Al-Mutamid) fu l’ultimo Re indigeno che rappresentò degnamente e brillantemente una Nazionalità e una cultura intellettuale che soccombettero sotto la dominazione dei barbari invasori. Si ebbe per lui una specie di predilezione come per il più giovane, come per il beniamino di questa numerosa famiglia di principi poeti che abbiano regnato in Al-Andalus. Se ne avvertì la mancanza, come l’ultima rosa della primavera”.
“Non sono forestiero a Marrakesh. I mori andalusi predominano nella composizione etnica della medina musulmana. (…) Marrakesh è per il mio pellegrinaggio, il limite della terra Santa, del Tempio. Ora, i riti vivono. Ora l’anima prega, accesa di religioso fervore. Ho indossato il “hizam” del pellegrino. Faccio una abluzione alla fontana della storia, con fecondi valori, figlio di una cultura che si pretese d’accecare e che divenne sotterranea e di discorso oscuro”.
Il 15 di Settembre del 1924 Blas Infante giunge al culmine del suo viaggio davanti alla tomba di Al-Mutamid. Quel che in principio fu un viaggio culturale, attraverso l’impronta storica di Al-Andalus, si era convertito in un incontro “spirituale”, un viaggio che potremmo definire “iniziatico”. A partire da qui, Blas Infante non tornò più ad essere lo stesso. Si era incontrato con la ricchezza di un Al-Andalus vivo nei discendenti dei moriscos, e con un Islam che non era soltanto nei libri, che era sufficientemente vivo per sentirlo, nella maniera in cui solo un “mumin” (credente) può farlo, intuendolo con il cuore che s’abbandona in Allah. Davanti alla tomba di Al-Mutamid, Infante ripete il rituale che si compie alla Mecca, come sua particolare forma di adempiere ad uno dei cinque pilastri obbligatori dell’ Islam: il Hajj o pellegrinaggio. Così Infante compie sette giri attorno alla tomba di Al-Mutamid, in senso opposto a quello delle lancette dell’orologio, a somiglianza dei sette giri che i pellegrini musulmani compiono alla Mecca intorno alla Kaaba.
Il 15 Settembre 1924 (Infante) recita la Shahada in una piccola moschea di Agmat, adottando il nome di Ahmad. Testimoni dell’atto con il quale egli si riconosceva musulmano, furono due andalusi nati in Marocco e discendenti dei moriscos: Omar Dukali e l’altro della kabila dei Beni-Al-Ahmar.
Il cammino che conduce Infante all’Islam, può sembrare strano a molti. Ad altri può sembrare una stravaganza permessa solo ai geni, prodotto dall’ammaliamento che Al-Andalus ha esercitato in molti personaggi nel corso della storia, o un tentativo di imitare quei re andalusi, che Infante tanto ammirava.
Ma noi che abbiamo seguito il suo stesso cammino, - Al-Andalus ci ha portato all’Islam - sappiamo della forza interiore dell’Islam e degli effetti prodotti dall’interiorizzazione di tutta una filosofia e di una forma d’intendere la vita, la creazione e la spiritualità, in base al compromesso con certi valori.
La sua relazione con l’Islam non si ferma ad Agmhat. Continuerà per tutta la sua vita, nei suoi scritti, nel suo modo di intendere la vita e nei suoi atti, con un compromesso rinforzato per e con la sua gente, la sua patria, il suo Din (cammino dell’Islam), che lo condurrà a vivere la stagione più produttiva della sua vita, tanto a livello letterario che politico, verso la divulgazione della storia e della cultura andalusa, nel suo intento di dar corso alla battaglia nel campo in cui i conquistatori più danno ci avevano arrecato, il campo della cultura.
Il suo interesse per riscattare la cultura andalusa lo porta a compiere un questo gran lavoro culturale nel quale è compresa, tra le altre cose, la richiesta al governo della restituzione della Sinagoga di Toledo alla Comunità Ebraica e della Moschea Aljama di Cordoba a quella Islamica. Una campagna a favore della costruzione di una moschea a Siviglia “non con animo di fare professione o confessione di una determinata religione, bensì con l’obiettivo di affermare la libertà e la pluralità religiosa, elementi di sintesi della Storia dell’Andalusia”, in lotta contro il pregiudizio contro il “moro” che cinquecento anni di acculturazione avevano impregnato il popolo Andaluso.
Lavoriamo con somma cautela su questi principi perché l’Andalusia torni ad essere ispirata dal suo proprio genio e perché noi, “gli andalusi, torniamo ad essere quel che fummo”.
1 commento:
Ciao Mustafà, è tanto che non ci sentiamo, comunque devo dirti che questo Blas Infante mi affascina molto e dovremmo un pò copiare quello che lui ha fatto e cioè che dovremmo fare in modo di risvegliare il popolo napolitano anche se so che a te fa piacere parlare di un popolo ausone, comunque Ausonia o Napolitania, il nostro popolo ha bisogno di un risveglio e non ci possiamo fermare alle Due Sicilie, ma guardare avanti con gli insegnamenti della storia. Ciao a presto.
Antonio Iannaccone
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