I "PICCIOTTI" DEL PROFETA
Il passato islamico delle Due Sicilie è un qualcosa che ogni duosiciliano musulmano che abbia un minimo di capacità d’introspezione sente fortissimamente in sé.
Leonardo Sciascia in “Occhio di capra” così s’espresse: “A Racalmuto (Rahal-maut - villaggio morto - per gli arabi: e pare gli abbiano dato questo nome perché lo trovarono desolato da una pestilenza) sono nato sessantaquattro anni addietro; e mai me ne sono distaccato, anche se per periodi più o meno lunghi (lunghi non più di tre mesi) ne sono stato lontano. E così profondamente mi pare di conoscerlo, nelle cose e nelle persone, nel suo passato, nel suo modo di essere, nelle sue violenze e nelle sue rassegnazioni, nei suoi silenzi, da poter dire quello che Borges dice di Buenos Aires: “Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”. Mi pare cioè di sapere del paese molto di più di quel che la mia memoria ha registrato e di quel che dalla memoria altrui mi è stato trasmesso: un che di trasognato, di visionario, di cui non soltanto affiora - in sprazzi, in frammenti - quella che nel luogo fu vita vissuta per quel breve ramo genealogico della mia famiglia che mi è dato conoscere (e tutto finisce, nel risalire il tempo, a un Leonardo Sciascia, nonno di mio nonno, che nei primi dell’Ottocento venne a Racalmuto dal vicino paese di Bompensiere per esercitarvi il mestiere di conciatore di pelli), ma anche tutta la storia del paese dagli arabi in poi. Ed ecco un fatto di per sé borgesiano, del Borges di natura e quotidiano: non riesco ad immaginare, a vedere, a sentire la vita di questo paese prima che gli arabi vi arrivassero e lo nominassero. Ed è piuttosto facile scoprirne la ragione: la mia residenza qui, quella residenza che di molto precede la nascita, è cominciata con gli arabi, dagli arabi. Del resto, c’è il mio nome: che è tra quelli che Michele Amari registra come arabi, e finiscono con l’esser tanti da contraddire la sua tesi di fondo che la Sicilia sia stata araba ma non, per dirla approssimativamente, arabizzata (e il nome, fino alla metà del secolo scorso, nelle anagrafi parrocchiali, non gratuitamente, ma per esigenza fonetica, veniva così trascritto: Xaxa)”.
Bellissimo questo scritto di Sciascia: “Risiedevo qui e poi vi sono nato” tuttavia “non riesco ad immaginare, a vedere, a sentire la vita di questo paese prima che gli arabi vi arrivassero e lo nominassero” perché “la mia residenza qui, quella residenza che di molto precede la nascita, è cominciata con gli arabi, dagli arabi. Del resto, c’è il mio nome tra quelli che Michele Amari registra come arabi”.
Chiarissimo. C’è una sorta di filo sottile, ma continuo della memoria che ci lega pressocchè inconsapevolmente, ma non del tutto, ai nostri avi, sia a quelli più vicini, di cui c’è stato trasmesso direttamente qualcosa, sia quelli più lontani, di cui nulla sappiamo, ma che comunque sono legati a noi.
Non ne ho le prove, ma sono sicuro di discendere da uno di quei musulmani di Sicilia deportato a Lucera da Federico II e che, pur sconfitto, umiliato, venduto schiavo, cristianizzato, è riuscito a trasmettere il seme dell’Islam ai suoi discendenti fino a che, quando la possibilità c’è stata per quel seme di germogliare, esso è germogliato ed io sono tornato all’Islam.
Per questo, di mio, prima ancora di conoscere lo scritto di Sciascia, io che mai avevo scritto poesie, mi uscì di getto quella che è stata finora la mia unica poesia (anche se devo riconoscere che essa mi venne fuori dopo aver letto sul web un verso, uno solo, che ho fatto subito mio perché l’ho riconosciuto come tale; era di un certo Enzo, che forse, come me, sentiva questo filo continuo; ho anche provato a contattarlo, ma senza successo):
“Vivo da 14 secoli,
dall’Arabia alla Persia, da Cordoba a Mazara,
di generazione in generazione discepolo del Profeta,
esiliato, profugo, sempre straniero nella mia terra.
Strappato alla mia Sicilia,
dov’è ancor la mia casa, abitata dai rovi,
divenni straniero in Andalus, nella Granata che io edificai,
e ogni giorno muoio di nostalgia per la mia patria.
Oggi son tornato, oh madre,
dove mi guardavi da fanciullo, settecento anni fa,
giocare a inseguir lucertole, sotto la torre sveva,
mentre dabbasso il grano ondeggiava nel vento caldo del Tavoliere”.
Credo dunque di potermi dire, in piena coscienza e nel mio pieno diritto, in quanto duosiciliano e musulmano, “picciotto del Profeta”!
E’ una gran bella sensazione! Dire “picciotto” è dire d’essere figlio di questa terra meravigliosa, baciata da Dio, accogliente e ammaliante, che ha mutato in figli molti di coloro che vi giunsero come nemici, calando dal Nord o venendo dal mare per attaccarla e sottometterla; che ha integrato coloro che vi sbarcarono per sfuggire ad antiche persecuzioni o a moderne povertà, dandogli terre da coltivare, paesi da abitare, donne (o uomini) da sposare e Re savi da amare e ubbidire.
Qui ci sono paesi dove si parla albanese, greco o idiomi slavi. Altri dove si parla il francese, mentre un po’ tutti noi parliamo un po’ spagnolo. Altri paesi hanno nomi arabi e in essi oggi si torna a parlare arabo, grazie a quell’immigrazione che io definisco “riparatrice”, perché ha permesso il ritorno “ufficiale” degli unici figli cacciati via in nome dell’unità religiosa del paese, concetto che tante sofferenze ha apportato e che spero tramontato per sempre.
La mia storia di “picciotto del Profeta” ebbe inizio il 18 giugno dell'827 sulla costa di Mazara, in Sicilia, e non è mai finita. Ancor oggi, infatti, la più immediata immagine della Sicilia, la sua identità più profonda è quella dell'Islam. La civiltà che i miei padri instaurarono in Sicilia nel nome della religione di Muhammad (pace su di lui e sulla sua famiglia) è impronta ancora viva che, con tutto il suo bagaglio di cultura, di stile, di mentalità, di vita quotidiana perfino, segna il nostro destino. La mia residenza genealogica è dunque in Sicilia, tanto in quella di là dal Faro che in quella al di qua, che pur meno intrisa della prima, ha assaporato e assorbito qua e là questa sicilianità o sicilitudine. Il profilo di questa identità “islamica” è lo stesso in ambedue le Sicilie: è quello dei mercati, dei giardini, delle tavole imbandite, della "frescura”, dell'acqua, della gastronomia, della seduzione, della sterminata produzione poetica, del mistero, della toponomastica, dell'arte, della lingua, delle strade, dei castelli, dei silenzi, della solitudine, dell'assenza dell'odio politico, dei riti popolari, perfino di quelli più fortemente cristiani come la Settima Santa. Come non vedere nelle processioni del Venerdì Santo un eco del lutto di Ashura? E nel pugnale infisso nel petto della nero vestita Madonna Addolorata, il dolore di Fatima Zahra per la morte del suo amato figlio, l’Imam Hosseyn? Per la rude semplicità della città cristiana di un tempo, la Sicilia degli emiri e delle moschee fu quasi una vetrina da ammirare e in cui specchiarsi. Ed ancora oggi, il rude padano non riesce a spiegarsi la perdurante vitalità di un popolo che, da suoi bisnonni percosso e rapinato a morte, riesce ancora a sorridere alla vita e farsi sberleffi delle altrui preoccupazioni “fiscali”. E’ la vitalità islamica, quella stessa che fa sorridere ancora i palestinesi nonostante 60 anni di sofferenze, che fa gioire e sparare in aria gli irakeni ad ogni piccolo successo contro l’invasore, che fa brulicare di vita le città mediorientali anche nelle ore della notte. E’ la nostra inesauribile eredità!
Note
Recentemente è stato realizzato un documentario sulla presenza araba in Sicilia, attraverso i secoli, fino ai giorni nostri. Il suo titolo è appunto “I picciotti del Profeta”. Lo ha girato l’Istituto Luce a Scicli, Mazara, Vittoria e Santa Croce Camerina. La festa delle Milizie, la presenza delle “tannure”, i forni tipici della tradizione araba, e poi l’abbigliamento, i costumi, gli attrezzi di lavoro, i cui nomi in siciliano hanno la stessa pronuncia che in arabo. Autore del documentario è Pietrangelo Buttafuoco, insieme a Maura Cosenza. “Scopo del documentario è quello di offrire visivamente le emozioni, le sensazioni, i profumi, e soprattutto quanto la gente di Sicilia sente dell’Islam”, ha spiegato Maura Cosenza. Il lungometraggio dura cinquanta minuti e parte da ciò che si può vedere nei siti archeologici, nei castelli, nell’unico caravanserraglio che c’è a Sambuca di Sicilia, nei bagni arabi di Cefalà Diana; da lì si snoda un percorso tortuoso, a 360 gradi, alla ricerca delle tradizioni, nella vita di tutti i giorni, nella toponomastica, negli utensili utilizzati in agricoltura, nella cucina. Quindi c’è il tema dell’immigrazione dei tunisini, dei maghrebini, tutte popolazioni islamiche, musulmane, la cui presenza è stata censita solo dal 1990, quando già da una ventina d’anni questi immigrati vivevano a Mazara, a Santa Croce, a Vittoria, a Scicli… “Questi immigrati sentono di essere siciliani, si sentono poco italiani”, spiega Maura Cosenza. Il documentario è distribuito in Dvd dall’Istituto Luce.