domenica 31 agosto 2008

Pietrapertosa, l'Alpujarra delle Due Sicilie



Per chi non lo sapesse l’Alpujarra è una regione montana dell’Andalusia dove nel quindicesimo secolo trovarono il loro ultimo rifugio i moriscos ovvero quelli che rimanevano dei musulmani spagnoli perseguitati dall’intolleranza oscurantista che aveva preso il potere nella regione iberica.
I moriscos, in quella terra pressoché irraggiungibile, tra alte vette e mulattiere, riuscirono a resistere ancora un secolo su quel territorio che era diventato la loro patria e che non volevano abbandonare.
Io personalmente l’Alpujarra non l’ho mai visitata, ma da quel poco che ho potuto vedere sul web e dall’immagine fantasiosa e romantica che me ne sono fatto, la immagino come una regione tutta vette e paesini dove si respira un’atmosfera da tetto del mondo, nel senso che più in alto di là non si poteva andare.
Quando questo Ferragosto decidemmo di visitare Pietrapertosa, tutto ci aspettavamo fuorchè di trovare una piccola Alpujarra di casa nostra.
Si, sapevamo che in questo paese, a cavallo tra il nono e decimo secolo, dall’872 al 907, c’era stata una presenza arabo-islamica, ma di questa presenza sapevamo che poco o niente era rimasto, e quindi la nostra maggior aspettativa era riferita all’aspetto paesaggistico della zona nonchè al famoso "Volo dell'Angelo", un cavo steso tra Pietrapertosa e la dirimpettaia Castelmezzano, appeso al quale ci si lancia in un volo di attraversamento "aereo" della stupenda vallata.
Quando siamo arrivati, siamo subito rimasti a bocca aperta per gli attesi aspetti paesaggistici: guglie di rocce appuntite che costellavano il paesaggio e facevano da quinta ad un pugno di case raccolte strette strette e addossate a queste rocce. Ma anche la visita del paesetto non è stata da meno, rivelando anzi aspetti e sensazioni inaspettate. Percorrendo le sue strette viuzze, tra rocce e case che si compenetrano in uno stretto connubio nel quale, in mancanza di emergenze architettoniche, è la natura a farsi monumento, ecco che abbiamo cominciato a sentire quell’atmosfera da tetto del mondo di cui dicevamo prima a proposito dell’Alpujarra. Casette lillipuziane tra le quali s’insinuavano minuscoli orticelli, segno questo di un ambiente che secoli addietro dovette vivere una situazione di "assedio" ovvero di indisponibilità del territorio circostante; portoncini e finestre erano spesso riquadrate con fasce di color azzurro Sidi Bou Said di tipo maghrebino e la più bella di queste finestre ci venne subito di definirla “la finestra sopra il cielo”. Dai pannelli informativi che punteggiavano qua e là le stradine abbiamo appreso gli elementi fondamentali della storia del paesino. Pare che un certo Bomar, evidente italianizzazione di Abu Omar, insieme alla sua gente, forse reduci da Bari, già capitale dell'Emirato pugliese, ma conquistata dai cristiani l’anno prima, e quindi probabili sbandati in cerca di un rifugio, abbiano fondato questo paese e la sua incredibile fortezza posta sulla cima più alta di queste Dolomiti Lucane, costituendo un insediamento arabo islamico che è sopravissuto su questa montagna per non poco tempo. Qui si eran potuti arroccare, più a lungo che altrove, a guardare senza essere visti. Intorno a lui un mondo ostile o quanto meno estraneo anche se, a pochi chilometri l’uno dall’altro, altri “ribat”, altri insediamenti arabo-islamici, come Tricarico, Abriola, Guardia sul Basento punteggiavano la regione e rendevano meno inquietante questa situazione.
Sulle tracce di Abu Omar ci siamo incamminati io e il mio atletico genero musulmano affrontando ostacoli sempre più difficile ed emozionanti. Prima una ripidissima salita seguendo i cartelli turistici che indicavano la rabata (il ribat). Poi la salita già difficile cedeva il passo a due rampe a gomito costituite dall’impalcature dei lavori di restauro della fortezza, impalcature sospese nel vuoto e con il vuoto ai lati, che per chi come me soffre di vertigini e di fifa cronica non erano il massimo della tranquillità. Siamo così arrivati alla fortezza che di integro ha conservato ben poco: qualche torrino, tratti di mura ecc… Il tutto in totale e armoniosa fusione con le rocce che ne costituivano le fondamenta e spesso anche le pareti.
A questo punto rimaneva da percorrere una rampa di scale scavata nella roccia davanti alla quale mi sono piantato come un mulo, lasciando l’onore al solo ed intrepido genero di raggiungere solitario la vetta.
Ho utilizzato però quei minuti per pensare (cosa che mi riesce meglio dello scalar montagne) e cercare di immaginare quella sparuta popolazione islamica giunta lì a prezzo di chissà quali sacrifici e sfidando chissà quali pericoli, cosa doveva provare guardando quell’infinito panorama di monti e vallate che si estendeva ai loro piedi. Cos’è che gli mancava di più? La loro patria di origine, l’Africa o la Sicilia, verso la quale s’erano ormai tagliati tutti i ponti, oppure la stessa Bari, loro patria d’adozione, con il suo mare e la sua luce mediterranea, e ormai perduta? E che speranze avevano di riuscire a sopravvivere su quelle vette, e per quanto tempo? Per tutta la loro vita, per quella dei loro figli, per sempre? O solo per poco, per poi ripartire, se fortunati, verso un nuovo rifugio? E in quella provvisorietà si dotarono ugualmente di luoghi per pregare, per rivolgere a Dio l’adorazione dovuta, dovunque e comunque, come ad ogni buon musulmano si conviene? Beh, una risposta almeno a quest’ultima domanda forse l’abbiamo avuta, o per lo meno ci piace immaginare di averla avuta. Infatti al di qua della muraglia che guarda la valle, abbiamo notato le basi finemente lavorate di quelli che dovevano essere due pilastroni che fronteggiandosi, dovevano reggere una grande arcata, segno evidente dell’esistenza di una sala non destinata ad usi militari bensì per usi più nobili. Poi sulla parete esterna di questa sala abbiamo notato una nicchia. Non era l’apertura di una finestra perché chiusa verso l’esterno. Inoltre vagamente accennata una forma a cipolla dell’arco della stessa nicchia. Con mio genero ci siamo guardati in faccia e non c’è stato bisogno di parlare. Lui ha tirato fuori dalla tasca l’immancabile bussola che accompagna ogni musulmano quando si reca in luoghi sconosciuti e che serve per individuare la direzione della Mecca (qibla). L’abbiamo posta su una pietra piana e abbiamo aspettato trepidanti che l’ago calamitato si fermasse. Il risultato era quello che speravamo e ci aspettavamo: quella nicchia era rivolta alla Mecca ed era quindi probabilmente il “mihrab” che indicava la "qibla", e quella sala ormai scoperchiata e dalle mura smozzicate doveva essere la moschea nella quale i soldati della guarnigione rivolgevano la loro adorazione ad Allah.
Immediatamente quella sala, nella nostra fantasia, si affollò di quei nostri fratelli di tanti secoli fa che s’inginocchiavano, s’inchinavano e si rialzavano eseguendo le loro preghiere. Nonostante tutto, nonostante la loro solitudine, il loro isolamento, il loro sbandamento, il loro legame con Dio non si affievoliva nè si spezzava. “O fratelli nostri, che avete portato la parola di Dio in queste terre, che avete posto la vostra vita al Suo servizio, eccoci qui, siamo venuti a trovarvi, a portarvi una parola di consolazione e di affetto. La vostra avventura non è finita. Siamo qui noi che con l’aiuto di Dio continueremo a portare lo stendardo dell'Islam sulla nostra nobile terra delle Due Sicilie”.
Quando poi siamo scesi e tornati al parcheggio, abbiamo steso la stuoia accanto alla nostra auto e abbiamo pregato. Chissà se in tutti questi secoli, da quando la gente di Abu Omar abbandonò questi luoghi, qualche altro fratello aveva fatto risuonare i versetti del Corano su queste montagne. Se così non è stato, saremo stati i primi dopo undici secoli. E la lode sia a Dio che ci ha concesso di vivere questa giornata.